“La commissione per le riforme del sistema scolastico tedesco dal quale nacque anche l’Università di Berlino”, scrive Fritz Blaettner nella sua Storia della pedagogia, “era presieduta da F.D.E. Schleiermacher, al quale W. von Humboldt assegnò vasti compiti. Durante il periodo in cui fu ministro, W. von Humboldt emanò un solo editto: per una seria selezione degli insegnanti”.

Naturalmente era tutto più facile al tempo di Schleiermacher e di Humboldt (forse anche perché c’erano Schleiermacher e Humboldt) ma non sembra che questa raccomandazione –

prima e unica cosa da fare per la scuola: selezionare bene gli insegnanti – abbia trovato e trovi molto ascolto nella scuola italiana. L’idea stessa di “selezionare”, applicata al personale docente, suona cupamente reazionaria: uno pensa subito ai campi di concentramento.

Nessuno eccepisce all’idea che in sala operatoria debbano entrare i migliori chirurghi. E nessuno direbbe seriamente: “Ok, non so operare, ma mi piace tanto, e poi non so che altro fare: posso?”. Ma quando si parla dell’insegnamento le maniche si allargano, e la severità lascia il posto all’indulgenza: un po’ perché è chiaro che ci vogliono molti più insegnanti che chirurghi, e che gli insegnanti sono pagati molto di meno, e perciò non si può andare tanto per il sottile; e un po’ perché dire a qualcuno “no, tu proprio non puoi e non devi insegnare” viene percepito come una piccola violenza, la negazione di un diritto, quasi un giudizio sulla persona. Del resto, è tutto abbastanza immateriale, perché “insegnare bene” vuol dire mettere insieme tantissime cose (competenza, tecnica pedagogica, amore per i ragazzi eccetera) molto difficili da misurare. Ma misurare bisogna.

Per selezionare gli insegnanti, il ministero ha tentato, nei decenni, strade diverse. L’ultima, l’anno scorso, è stata il concorso per il Tfa (Tirocinio formativo attivo): un esame scritto con domande (almeno in parte) piuttosto assurde + un esame orale al termine del quale i pochi vincitori hanno potuto accedere a un corso annuale (il Tfa, appunto) a pagamento (dai 2.000 ai 3.000 euro) durante il quale hanno seguito lezioni sulle discipline d’elezione e sulla pedagogia e hanno svolto un tirocinio in classe. Finito il Tfa hanno sostenuto un esame. Chi ha superato l’esame (quasi tutti) ha ricevuto l’abilitazione all’insegnamento.

A essere onesti, ce n’è abbastanza per dissuadere anche l’essere umano più serio, zelante, motivato e dedito alla causa dall’intraprendere la carriera di insegnante. Ma non è tutto, perché la fatica di questo slalom è aggravata, ora, da una decisione del ministero che a me pare sconcertante.

Lo stesso giorno in cui le università varavano tra mille difficoltà, dopo quattro anni d’attesa, i Tfa, il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) ha infatti decretato l’attivazione dei cosiddetti Pas (Percorsi abilitanti speciali), corsi abilitanti “speciali”, appunto, rivolti a chi ha lavorato nella scuola per un totale di almeno tre anni anche non consecutivi nell’amplissimo, spropositato arco di tempo che va dal 1999 al 2013: corsi ai quali – qui l’aggravante nell’aggravante – si può accedere senza concorso. Dunque conta solo l’anzianità. Questa anzianità – aggravante nell’aggravante nell’aggravante – può essere stata ottenuta non in una ma in più classi di concorso, e non solo nelle scuole statali ma anche nei centri di formazione professionale e nelle scuole paritarie (le quali ultime sono spesso diplomifici di scarsissima qualità, e nei quali si accetta di lavorare proprio allo scopo di “fare punteggio”), nonché nel sostegno (Ddg n. 58 del 25 luglio 2013).

Questo significa che ci potranno essere casi di persone che, senza selezione, entreranno nei Pas di, poniamo, materie letterarie per le superiori avendo insegnato, poniamo, per un anno italiano in una scuola paritaria, per un anno sostegno e per un anno filosofia in una scuola statale, o materie umanistiche in una professionale. Un anno, cioè 180 giorni di insegnamento in una classe specifica permettono di accedere a quei corsi abilitanti che i candidati al Tfa, lo scorso anno, si sono guadagnati superando un esame severissimo.

E l’accesso, lo dico per esperienza diretta, significa quasi sempre, al termine del corso, promozione, abilitazione. “Nei corsi speciali che ho coordinato e seguìto nell’anno accademico 2006-2007”, mi dice un collega, “su quasi 400 iscritti tra primaria e secondarie ne abbiamo bocciati due (una di inglese che non sapeva assolutamente l’inglese e una guardia giurata pazza che voleva insegnare alle elementari). Risultato: ricorsi e controricorsi, un sacco di mie visite all’avvocatura dello stato eccetera eccetera. Siamo messi così, purtroppo”.

Già siamo messi così, noi. Quanto a loro, a quelli che – studiando, facendo esami e, non va dimenticato, pagando – hanno superato il Tfa, costoro* non avranno* la cattedra per la quale sono abilitati. Infatti, come si legge in una lettera al ministro firmata da una cinquantina di docenti universitari,

avendo ottenuto l’abilitazione, i tieffini avrebbero avuto diritto a presentare domanda di iscrizione nelle graduatorie di istituto per la II fascia, quella riservata ai docenti abilitati; e invece no, le graduatorie di istituto non sono state riaperte quest’anno, così i tieffini sono rimasti in III fascia, quella riservata ai non abilitati, e si vedranno passare avanti gli iscritti in graduatoria che hanno più anzianità e dunque più punteggio, ma che NON hanno superato né il concorso per il Tfa né il relativo corso. L’anno prossimo, poi, quando le graduatorie verranno riaperte, si potranno iscrivere alla fascia degli abilitati sia i tieffini sia gli abilitati coi Pas, che avendo maggiore anzianità di servizio avranno comunque la precedenza nell’assegnazione delle supplenze.

Assegnare le ragioni e i torti, nelle faccende che riguardano la scuola, è proprio impossibile. Perché il passato è un tale cumulo di errori e ritardi e inadempienze che si ha l’impressione che mettervi mano, qualsiasi cosa si faccia, voglia dire complicarli. E perché probabilmente c’è nell’intera gigantesca macchina scolastica qualcosa di immedicabile: amministrare un numero di dipendenti che sfiora il milione (tanti sono gli insegnanti in Italia) non è difficile, è inutile.

Ma ci sono due princìpi a cui sembra davvero suicida voler rinunciare. Il primo è che chi va a insegnare a scuola deve superare un esame severo all’ingresso del percorso abilitante (com’è stato nel caso del Tfa). Il secondo è che dobbiamo fare di tutto perché le porte della scuola si aprano soprattutto a insegnanti giovani, perché l’età media degli insegnanti italiani è – nel paragone con gli altri paesi Ocse – altissima, e questo è, tra tanti, il guaio più grave della scuola italiana.

I Pas contraddicono sia l’uno sia l’altro principio. Ovviamente hanno, per esistere, delle ragioni, che ad alcuni (e per esempio a una parte consistente del sindacato) potranno sembrare valide. A me non pare che lo siano. È stato un errore, che produrrà altri errori, a catena. Ed è, per chi lavora o vuole lavorare nella scuola, l’ennesima pillola di demoralizzazione. Quanto a me, da docente universitario non ho più il coraggio di consigliare ai miei studenti la strada dell’insegnamento.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it