Da Seminara in poi la compagnia e il consiglio di Sante e Giuseppe diventano sempre più preziosi, perché le possibilità – chiese, paesini, punti panoramici – sono tante, e nessuna delle guide della Calabria è davvero soddisfacente: o meglio, nessuna delle guide in commercio, dato che la migliore di tutte, la Guida rossa del Touring, è stata stampata l’ultima volta nel 1980 e oggi è introvabile (c’è la Guida verde, che però non è lo stesso, perché di arte e storia dice poco o niente).

In più, la segnaletica è abbastanza infame: preparatevi a chiedere alla gente, a essere accompagnati dalla gente nei posti in cui volete andare, e che si chiamano sempre con un nome simile a quello di un altro posto lì vicino, un nome troppo simile per non prestarsi all’equivoco: in quale idillico mondo preautomobilistico si è deciso che il paese X, a cinque chilometri da Taurianova, si sarebbe chiamato Terranova?

Comunque sia, Terranova Sappo Minulio è un paesino che nella nostra guida neanche c’è, e che invece non bisogna perdersi. Ricostruito (bene) dopo il terremoto del 1783, è un paese in leggera salita, con strade ortogonali e casette basse e pulite, illuminate – in questa fine di maggio – da una luce nordica, islandese, e tutto attorno un bosco di ulivi che Sante definisce con una coppia di aggettivi incongrua ma azzeccata: “memorabili e ornamentali” (ornamentali, mi spiega, perché sono olivi selvatici da cui non si ricava olio: lo si ricavava un tempo ed era un olio molto acido, detto lampante perché lo si usava per l’illuminazione. La luce elettrica ha eliminato l’olio e ha lasciato le piante).

A Terranova Sappo Minulio ci arriviamo alle tre del pomeriggio e non c’è nessuno e non si sente niente, solo il vento che fa vibrare le fettucce di nastro biancazzurro teso sulle facciate delle case e agli incroci: tre giorni fa c’è stata la festa del patrono.

Siamo qui per una ragione, vedere la chiesa di Maria Santissima Assunta, costruita nei decenni successivi al terremoto del 1783:

O meglio, quello che c’interessa non è tanto la chiesa, quanto quel che c’è dentro: la lastra tombale di Roberto I di Sanseverino:

E, soprattutto, due sculture in marmo, una di santa Caterina d’Alessandria e una della Vergine, che un nostro amico, lo storico dell’arte Francesco Caglioti, ha attribuito a Benedetto da Maiano (1442-1497), due sculture finite qui dopo giri infiniti, infiniti passaggi di mano che sarebbe lungo anche solo riassumere. Alla chiesa ci accompagna un ragazzino pasoliniano che trasporta bombole di gas con l’ape. Alle tre e mezza il sagrestano ci fa entrare e Laura, Sante e Giuseppe contemplano a lungo queste meraviglie, che a me per la verità dicono pochino (e sarà questo più o meno il Leitmotiv del viaggio, contemplazione dotta e ammirata da parte loro vs. distrazione o simulato entusiasmo da parte mia: le gite d’istruzione, per quanti sforzi faccia, e ne facciano gli altri, mi rimbalzano):

Perché non sono soltanto in compagnia di un’esperta di storia dell’arte e di due restauratori, sono in compagnia di un’esperta di storia dell’arte e di due restauratori particolarmente versati nella scultura. “La scultura. La scultura. Non la pittura”, riescono a dirmi con gli indici puntati prima che io mi estranei con l’ipod.

Si scollina dopo qualche chilometro al passo del Mercante, 952 metri sul livello del mare, e da uno spiazzo a bordo strada si avvista lo Ionio. A perdita d’occhio c’è solo bosco – e pale eoliche. Sante non apprezza. “Negli anni settanta c’erano ancora gli invasi, i laghi artificiali, che bastavano al fabbisogno di elettricità della regione. E c’erano delle pale più discrete che servivano a pompare acqua per gli agrumeti”. Ne abbiamo viste un paio che arrugginiscono in mezzo ai campi. “Ora invece ci sono questi mostri…”. Capisco, e capisco anche meglio quando Giuseppe mi racconta del giorno in cui si è svegliato e loro, le pale, c’erano: “In una mattina mi hanno cambiato il paesaggio!”.

Capisco, ma devo dire che a me le pale eoliche non dispiacciono: sia viste da lontanissimo, dalla spiaggia; sia da abbastanza vicino, quando spuntano enormi come torri Eiffel all’uscita da una galleria. Ma il resto dell’equipaggio mi zittisce in coro: “Ma viste da vicino sono orrende, e fanno un rumore insopportabile, vuuùm vuuùm, c’è gente che ha dovuto cambiare casa. E insomma, la costa ce la siamo giocata, l’abbiamo inondata di cemento. Potevamo tenerci almeno la montagna: invece no, la disboschiamo, la snaturiamo per metterci le pale eoliche. E quel che resta lo battezziamo ‘parco’: il parco eolico di San Sostene! Ma che diavolo vuol dire ‘parco eolico’, eh?”.

Venti chilometri e arriviamo a Gerace, dove ci aspettano “due chiese e alcune opere”, scandisce Sante vedendomi esitante e anche molto tentato, semmai, dal mare che è ormai a due passi, “di assoluto interesse”. La prima chiesa è la magnifica cattedrale romanica, il più grande edificio sacro della Calabria:

Io la giro tutta in circa cinque minuti, mentre i miei compagni di viaggio esaminano ogni capitello, soppesano ogni bassorilievo, fomentandosi a vicenda per un’ora buona. Ora che io trascorro, leggendo, nel caffè della piazza. Dopodiché rientro e li trovo tutti nella cripta in contemplazione di questa croce:

Croce che – mi viene spiegato – non è una croce qualsiasi, ma una stauroteca, cioè un piccolo reliquiario contenente frammenti della croce di Gesù.

Per vedere l’altra chiesa, San Francesco, anche lei duecentesca, abbiamo un mezzo appuntamento col capomastro che ne sta curando il restauro. Ma il capomastro ha il telefono staccato, così dato che è quasi l’ora dell’aperitivo ci sediamo al bar a mangiucchiare qualcosa e a bere un buonissimo caffè freddo in bottiglia, marca Brasilena, che io non ho mai visto in vendita da nessun’altra parte.

Dopo mezz’ora Laura e io saremmo del parere di andarcene, tornare un’altra volta, ma Sante e Giuseppe conoscono meglio di noi gli usi e i costumi, così si rivolgono al barista per un’indicazione, un aiuto. Sa per caso se…? Un minuto dopo, uno dei clienti del bar sta parlando al cellulare con il capomastro (avevamo il numero sbagliato); cinque minuti dopo il capomastro si presenta al bar con due dei suoi figli, desolato per l’equivoco; dieci minuti dopo siamo all’interno della chiesa, che si presenta così, molto impacchettata:

E un quarto d’ora dopo siamo tutti dietro l’abside ad ammirare il monumento funebre di Nicola Ruffo (scultore campano vicino a Tino di Camaino, 1372), che il capomastro ha liberato per noi dal cellophane:

La presente vale come ringraziamento alla nostra guida, il sig. Gratteri (qui con i due figli maschi):

Da Gerace alla costa ci vuole una ventina di minuti. Uno entra a Locri e si aspetta il far west, invece è tutto normale, una cittadina costiera del sud come uno se la immagina se non ha troppe pretese. Qualche negozio di lusso di troppo, in mezzo al brutto nonfinito calabrese (vedi oltre). “Mica solo a Milano”, commenta sapientemente Giuseppe: “la ‘ndrangheta è arrivata persino qui”. I ristoranti aperti sulla costa non sono molti perché è bassa stagione.

Dopo un paio di telefonate a un paio di amici, Sante e Giuseppe decidono di “andare sul sicuro”, così ci dirigiamo verso il ristorante Il canneto di Ranieri Leonardo, via Risorgimento 8, Davoli Marina (Cz), telefono 368.3310713 (ed è meglio telefonare). Mangiamo da signori a prezzi da anni settanta: torneremo al Canneto tutte le sere del nostro soggiorno calabrese, anche a costo di farci cento chilometri di strade statali, anche a costo di perderci gli affreschi bizantini della chiesa X.

La mattina dopo, domenica, ridefinisce la nozione di sublime, perché la spiaggia di Isca è una spiaggia da mari del sud, deserta come uno s’immagina debbano essere le spiagge dei mari del sud. La gente, mi spiegano, viene al mare a luglio e agosto, negli altri mesi no, anche se la giornata è incantevole come oggi. In un’ora di jogging sul bagnasciuga incontro solo un paio di pescatori e un cane che fa un pezzo di corsa con me, un cane che – perché neanche una goccia di amarezza entri in questo miele domenicale – non è randagio, ha un padrone che evidentemente lo nutre e lo accarezza, dato che ha il collare, è bene in carne e amichevolissimo.

Sulle colline di Stignano, ai tempi di Campanella, c’era già la torre di guardia, oggi diruta. Un po’ più tardi, nel corso del seicento, venne costruito lo splendido castello di San Fili, che domina la pianura e un bello spicchio di Ionio, e che oggi non può dirsi proprio diruto (“abbattuto, distrutto”), ma certo non se la passa bene.

La struttura esterna regge ancora, ma l’interno – porte, finestre, pavimenti – cade a pezzi. Dice Laura che le scritte sui muri e i graffiti li hanno sempre fatti, ma certo spiace un po’ entrare e trovare questo scempio:

E dice Sante che bisognerebbe fare qualcosa per rimettere in sesto l’edificio, che lui si ricorda – era bambino – in condizioni non ottime, ma migliori. Ma fare cosa? Legambiente lo ha messo nell’elenco dei monumenti da preservare, ma per preservare bisogna spendere. Segue una breve, pacata, realistica discussione sul tema “chi può spendere?”, e nella discussione si vagliano tutte le possibilità, si citano esempi negativi e positivi – il demenziale museo del paese vicino, tenuto chiuso per un quarto di secolo, riaperto per un anno e ora in ristrutturazione, la torre medievale di un villaggio toscano ceduta a un privato che l’ha restaurata e ci ha fatto uno splendido albergo, mantenendo intatta l’antica struttura, gli arredi addirittura – ma alla fine prevale l’idea di lavarsene le mani.

È tutto così bello, tutto così luminoso, il vento soffia così placidamente in mezzo al grano che diventiamo fatalisti. Del resto, abbiamo tutti più di quarant’anni. La casa-castello non c’era al tempo di Tommaso Campanella, per un paio di secoli è servita a qualcosa, oggi non serve più a niente, e dunque sì, diventi pure un pezzo del paesaggio, un rifugio per graffitari e infine – ma molto dopo che noi ce ne saremo andati – polvere.

A Stilo, la famosa Cattolica (secolo X) è una chiesa inutile, quasi fastidiosa, anche a causa di un impiegato che sta seduto a un banchetto all’ingresso, e si annoia e parla a vanvera, e sorveglia che nessuno fotografi o tocchi gli affreschi. Ma gli affreschi, quelli originali, bizantini, se ne sono già andati: resta solo qualche frammento snaturato dai restauri.

Meglio allora scendere a valle, tornare verso Isca Marina e arrivare (ma ci vuole una guida locale, un amico di un amico: noi ce l’abbiamo) alla Chiesa di Campo a Sant’Andrea apostolo dello Ionio. L’interno è in restauro, e il restauro è un po’ disperato, perché degli antichi affreschi d’età bizantina (X-XIII secolo) restano solo brandelli.

Ma Chiesa di Campo vuol dire che la chiesa è proprio in un campo, col biondo grano che ondeggia al vento di maggio e le file di formiche che ora si rompono ora s’intrecciano in cima a minuscole biche, e lo sguardo non incontra niente che non fosse già lì mille anni fa – solo, ma lontanissimo, quasi invisibile, un capannone industriale dove si producono vernici per la nautica, e dove pare che lavorino soprattutto immigrati bangladesi che nessuno vede mai in giro, solo ogni tanto spuntano, mezzi morti per l’intossicazione da vernice, all’ospedale di Locri, dove li tengono per un paio di giorni a latte e minestrina, dopodiché li rimandano in fabbrica perfettamente guariti.

(Fine seconda parte)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it