Diceva Alberto Savinio che la retorica in Italia è ubiqua, e che in questo disgraziato paese perfino la guerra si può fare, si è fatta, per retorica. I tempi cambiano, si addolciscono, e per fortuna nel 2020 l’Italia non si mette più a fare la guerra, ma è chiaramente per retorica che gli studenti italiani faranno, anche quest’anno, l’esame di stato in presenza.

Il Consiglio superiore della pubblica istruzione (Cspi) aveva dato parere contrario, naturalmente al modo in cui si è contrari (o favorevoli) in Italia, cioè non scrivendo chiaro e tondo che “è meglio non farne nulla”, o che “è preferibile fare gli esami da remoto”, ma argomentando quanto segue: “Il Cspi, raccogliendo la forte preoccupazione del mondo della scuola per la situazione sanitaria di emergenza in cui versa il paese e, consapevole che la situazione non potrà essere mutata nei prossimi mesi, secondo quanto chiarito dalle autorità sanitarie, ritiene indispensabile l’emanazione urgente di un protocollo di sicurezza nazionale stringente, dettagliato e prescrittivo a garanzia della salute di tutto il personale coinvolto nell’esame di stato e degli alunni. In assenza di tale protocollo o nell’impossibilità di poterne applicare le prescrizioni ritiene indispensabile prevedere con immediatezza la realizzazione a distanza di tutte le operazioni d’esame”.

Detto più chiaramente: 1) c’è una ragionevole preoccupazione; 2) non c’è motivo di pensare che a giugno tutti i problemi saranno risolti e che la ragionevole preoccupazione venga meno; 3) il “protocollo di sicurezza nazionale”, qualsiasi cosa significhi, non c’è, ergo sarà bene che gli studenti continuino a starsene a casa, e da casa diano l’esame (così si fa del resto per l’esame della scuola secondaria di primo grado, così si fa per gli esami di laurea).

Dire: ‘Valutateli, li conoscete, è il vostro mestiere’, non era sufficiente

Il ministero dell’istruzione ha pensato diversamente. Dalla mattina del 17 giugno gli studenti dell’ultimo anno della scuola secondaria superiore faranno il loro esame non da remoto ma in presenza, davanti a una commissione formata da sei docenti interni presieduta da un commissario esterno. Sette persone in tutto, più il candidato, più l’eventuale docente di sostegno, più l’eventuale familiare nei paraggi per il moral support.

L’esame sarà solo orale ma, novità degli ultimi giorni, all’esame orale il candidato porterà anche un elaborato relativo a un argomento scelto dai docenti delle discipline d’indirizzo. I tempi sono stretti: l’argomento sarà indicato agli studenti entro il 1 giugno, e gli studenti dovranno mandare per posta elettronica l’elaborato ai docenti entro il 13 giugno. Meno di due settimane per preparare una tesina, si suppone combinando insieme idee proprie e brani d’idee altrui pescati su internet (le biblioteche sono chiuse): è uno di quei tanti casi in cui avere genitori laureati e un po’ di libri in casa fa la differenza tra i sommersi e i salvati. La durata del colloquio – che verte sull’elaborato, su testi di lingua e letteratura italiana, su “cittadinanza e costituzione” e altro – è, precisa l’ordinanza, di circa un’ora. Un’ora, in piena estate, dieci esseri umani traspiranti, in un’aula scolastica italiana, magari con i parenti nei dintorni, e poi gli altri studenti, e i parenti degli altri studenti.

Come valutare il colloquio? Anche in questo caso il ministero ha preso per mano le commissioni emanando una “griglia di valutazione della prova orale” articolata in cinque punti – “capacità di argomentare in maniera critica e personale, rielaborando i contenuti acquisiti”, “Ricchezza e padronanza lessicale e semantica, con specifico riferimento al linguaggio tecnico e/o di settore, anche in lingua straniera”, eccetera – ciascuno articolato a sua volta in cinque livelli, a ciascuno dei quali corrisponde un punteggio. Si sommano i punteggi parziali, si ottiene il “punteggio totale della prova”. Dire: “Valutateli, li conoscete, è il vostro mestiere”, non era sufficiente.

Più cose insieme
Ora. L’esame di stato gentiliano, anni venti del novecento, era un esame-barriera, il suo obiettivo era selezionare, dire chi poteva e chi non poteva andare all’università. Erano più i bocciati dei promossi. Nel 2019 l’esame di stato è stato superato dal 99,7 per cento dei candidati. Vale a dire che non è stato (non era già trent’anni fa, quando l’ho fatto io) un esame, ma un’altra cosa, o meglio più cose insieme: un simbolo, una soglia della maggiore età, una fucina di bei ricordi angoscianti, una festa – soprattutto una festa, tant’è vero che le voci più preoccupate che quest’anno non ci fosse l’esame di stato, sono state, comprensibilmente, quelle degli esaminandi: dopo tanta clausura, sarebbe stata una delusione congedarsi dalla scuola superiore senza salutare i compagni, gli insegnanti.

Questa festa ha però un costo, di fatica, per gli insegnanti, e di denaro, per la fiscalità generale. Fatica, perché si tratta ogni anno di ottemperare a nuove richieste da parte del ministero, decifrando documenti scritti con i piedi, partecipando a “riunioni orientative” insieme agli ispettori in cui si glossano questi documenti con perizia di causidici. Denaro: perché la macchina dell’esame di stato costa alcune decine di milioni di euro. A fronte di questo costo, l’esame non ha alcuna conseguenza sulla carriera lavorativa o universitaria degli studenti: e giustamente, dato che non esiste – né forse potrà mai esistere, dati i numeri – un sistema di valutazione standard su scala nazionale.

A questa, diciamo, complessiva inconcludenza si sommano, quest’anno, problemi molto concreti dei quali nel dibattito sui mezzi di informazione si sente parlare poco: l’obbligo di mantenere le distanze in ambienti che quelle distanze non consentono; l’obbligo per le scuole di sanificare, di mettere a disposizione gel disinfettanti, di comprare le mascherine da distribuire ai commissari e al personale tecnico-amministrativo, una per la mattina e una per il pomeriggio; la probabile defezione di molti insegnanti timorosi, o di molti insegnanti rientrati nei luoghi d’origine prima del confinamento, e non intenzionati, anche potendo, a tornare nei luoghi di lavoro.

Conclusione generale: bisognerebbe abolire l’esame di stato. E sostituirlo con che cosa? Con una prova o una serie di prove di fine anno gestite dai docenti delle varie materie, oppure con niente: e a promuovere o bocciare, seriamente, penseranno gli esami d’ammissione delle università, o gli esami in itinere, per quegli studenti che all’università vorranno andare; gli altri, liberi.

Conclusione particolare: quest’anno sarebbe stato meglio non fare l’esame (non lo si farà, per esempio in Svezia e in Danimarca) o farlo a distanza, per risparmiare denaro e per essere tutti più sicuri. Se si è scelta un’altra strada, la strada di sempre, è perché aveva ragione Savinio.

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