Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti da un mese in Danimarca. I motivi del trasloco sono molti, quello ufficiale è il lavoro di mio marito ma quello reale è la voglia di crescere i nostri figli nel miglior contesto possibile.
Questo weekend siamo stati al pride di Copenhagen e ho parlato con altri genitori omosessuali. Ho chiesto a un papà con il figlio sulle spalle cosa ci facevamo lì in strada, con striscioni e bandiere arcobaleno, se ormai in Danimarca tutti i diritti per cui ci si batteva un tempo sono stati riconosciuti.
Lui ci ha pensato un po’ e alla fine mi ha detto: “In effetti, c’è ancora qualche piccolo dettaglio da sistemare, alcune parti dell’ingranaggio che vanno migliorate”. Qualche piccolo dettaglio? In quel momento ho capito che abbiamo scelto il paese giusto.
Nel lungo corteo, di genitori lgbt non ce n’erano poi molti mentre era decisamente più folto il gruppo di persone di origine africana che reclamava il diritto all’asilo per gli omosessuali perseguitati nel loro paese.
Questo mi ha ricordato che, tra i motivi per cui eravamo in strada, c’era anche quello di sostenere la battaglia per i diritti negati negli altri paesi. Compresa la mia Italia.
Nei giorni scorsi dal nostro paese è arrivata la bella notizia che due donne sono state finalmente riconosciute entrambe madri legali della loro figlia. Una sentenza del Tribunale per i minori di Roma, ancora più importante quando si legge la motivazione in cui, senza nessuno strappo con la legislazione vigente, si applica semplicemente il principio della priorità dell’interesse del minore.
La step-child adoption (cioè l’adozione del figlio biologico del partner in una coppia omosessuale) non è una concessione a dei genitori gay: è un atto dovuto nei confronti di un bambino discriminato per via dell’orientamento sessuale dei suoi genitori. La sua famiglia esiste già, con o senza il benestare di un giudice, quello che gli manca è la tutela giuridica di cui godono gli altri bambini.
Ma al di là di questo raggio di speranza, che come sempre arriva dai tribunali e non dalle piazze né dal parlamento, dall’Italia arriva molta ombra. Osservando le cose da una certa distanza, mi risulta inconcepibile l’ondata di omofobia che ha investito la società civile e l’informazione in questi ultimi anni, per altro senza che la politica abbia fatto neanche mezzo passo avanti.
Un breve articolo che gira sui social network - di cui citerò la violenta stupidità ma non la fonte, per non regalargli neanche un clic - parlando delle due donne a cui è stato riconosciuto il diritto di adozione, scrive:
“La coppia, che vive a Roma dal 2003, ha comprato la bimba all’estero sfruttando il noto mercato della procreazione assistita eterologa, mercato ora in via di approvazione anche in Italia”.
Ma al di là degli estremisti e degli idioti, che son sempre esistiti, quello che mi turba è il coinvolgimento di uomini e donne che fino a ieri erano occupati a sbrigare le loro faccende private, e adesso invece creano gruppi omofobi tra i genitori di scuola o vanno a leggere dei libri in piedi nelle piazze, come tanti lugubri monumenti all’intolleranza silenziosa.
Parlando con un’amica che fa il medico, lei mi ha detto che nel suo reparto i suoi colleghi stanno cominciando a diventare omofobi perché non ne possono più di sentir parlare di quest’argomento. È la vecchia storia dell’Italia che ha ben altri problemi da gestire. Che va avanti da circa centocinquant’anni.
Come se qualcuno negli anni sessanta avesse interrotto Martin Luther King sul suo “I have a dream” per dirgli che era in corso la guerra in Vietnam e la Casa Bianca aveva ben altri problemi di cui occuparsi.
E poi c’è anche il vecchio problema dei politici di sinistra che scoprono quanta facile attenzione si ottiene andando contro corrente, e così diventano clericalisti omofobi e finiscono sulle prime pagine dei giornali. Anni fa c’era la Binetti, oggi c’è qualcun altro di cui non farò il nome perché, di nuovo, non intendo regalare attenzione a chi non se la merita.
Se durante la giornata del World Pride del 2000 a Roma, in quel fiume interminabile e gioioso di gente, qualcuno mi avesse detto: “Ma lo sai che tra quattordici anni non vi sarà stato riconosciuto ancora nulla? Niente legge contro l’omofobia, niente unioni civili, niente matrimoni e niente adozioni”, be’ io non ci avrei creduto.
E se poi quel qualcuno mi avesse detto che oltre a ottenere il nulla più assoluto, avremmo anche avuto persone in strada per assicurarsi che tutto resti così, be’ avrei pensato di parlare con un ubriaco.
Per tanti anni sono andato in giro a dire che i veri omofobi non sono gli italiani, ma la loro classe politica. Ora ho cambiato idea. Così come il problema non è stato Berlusconi, ma gli italiani che l’hanno votato per vent’anni. Il problema, mi dispiace dirlo, sono proprio gli italiani, che sulla questione dell’omosessualità non riescono a capire che si tratta di diritti umani, prima ancora che civili.
Non sono mai stato così pessimista sulle sorti del nostro paese come lo sono oggi. Eppure continuerò a impegnarmi per cambiare le cose. A scrivere, a parlare, a scendere in piazza. Anche da qui in Danimarca. Perché al di là della nostra vita di tutti i giorni, voglio che i miei figli crescano nel miglior mondo possibile.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it