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Dopo Civil war la Marvel deve voltare pagina

Captain America: civil war. (Marvel/Outnow)

Dopo l’epico Batman v Superman, Captain America: civil war rende chiara una cosa: il cinema di supereroi, dopo un decennio di asticelle spostate sempre più in alto, sta prendendo tempo. Far combattere “i buoni” tra loro è un modo per esplorarne il potenziale fino in fondo e per spremerlo fino all’ultima goccia, in attesa di qualcosa di nuovo. Magari di un ritorno dei grandi supercriminali che ultimamente, soprattutto nel mondo Marvel, stanno latitando. Personalmente non vedo l’ora di vedere riaffacciarsi sugli schermi le belle facce del Dottor Destino o di Galactus.

La sfida di questi film ormai può dirsi vinta: mettere in scena un numero sempre crescente di personaggi in tutina e farli interagire mantenendo un equilibrio ammirevole tra mazzate e dialoghi. E privilegiando ovviamente le prime senza darlo troppo a vedere. La velocità con la quale si scioglie il dramma è tale che non sempre le intenzioni o le caratteristiche psicologiche dei vari eroi sono chiare e non sempre i dialoghi hanno senso. Ad aiutarci a sospendere il giudizio, oltre alle mazzate e alle esplosioni, ci sono dei piccoli colpi di genio sparsi qua e là, che ci fanno felici di aver pagato il biglietto.


Captain America: civil war, nonostante il titolo, è a tutti gli effetti il terzo film dei Vendicatori. I personaggi sono tutti lì: la Vedova Nera (una Scarlett Johansson leggermente appannata), il rissoso Occhio di Falco, Iron Man (in piena crisi di mezza età), la sempre più potente, tormentata (e malvestita) Wanda Maximoff e Visione (ormai un incrocio tra Spock di Star Trek e Lurch della Famiglia Addams). Ci sono una manciata di personaggi nuovi tra cui spicca un’eccezionale Pantera Nera che ruba la scena praticamente a tutti e, a tratti, fa sembrare l’intero film un trailer per le sue prossime avventure. L’attore che lo interpreta, Chadwick Boseman, ha gioco troppo facile a far sembrare Chris Evans (Capitan America) un modello di abiti da cerimonia che ha passato troppo tempo in palestra. Dopo averlo visto in azione, non stupisce che Boseman abbia già un contratto con la Marvel per altri cinque film.

Il Falcon di Anthony Mackie (probabilmente il costume più bello di tutti) essenzialmente ha lo scopo di non far essere Pantera Nera l’unico supereroe nero del cast e di non farlo percepire, dunque, come quota politically correct. L’equilibrio tra etnie e sessi è sempre più un tratto distintivo dei film della Marvel. Nonostante lo scivolone di Tilda Swinton usata per interpretare un personaggio asiatico in Doctor Strange, la Marvel è molto attenta a rappresentare tutti, ogni tanto facendo delle capriole di casting esagerate.

E anche le donne, per quanto possibile in una storia di supereroi, non vengono mai rappresentate secondo stereotipi troppo ovvi: Wanda è fragile perché è un’adolescente traumatizzata, non perché è una donna; Vedova Nera dà (e prende) tante mazzate quante ne dà (e ne prende) Capitan America. E poi sono sicuro che se non ci fosse stato William Hurt, il ruolo del segretario di stato che rimette in riga i Vendicatori avrebbe potuto essere tranquillamente di Glenn Close. Ma questa è una pura fantasia.

Il film sfiora anche il terreno minato dell’omoerotismo nel rapporto Achille/Patroclo tra Capitan America e Bucky. Il film sceglie l’approccio don’t ask don’t tell dell’esercito statunitense in fatto di militari gay. In un raro momento di quiete, i due parlano di una bella rossa che gli era piaciuta un sacco nel 1941, subito prima di essere congelati. Be’ i primi a non crederci molto sono proprio loro due, troppo presi dal loro bromance psicotico e totalizzante.

Captain America risolve in maniera elegante uno dei cliché più ingombranti del cinema di supereroi: il trauma delle origini

Tra i piccoli colpi di genio che fanno perdonare l’inevitabile debolezza della trama, c’è l’ennesimo reboot di Spider-Man, arrivato ormai alla sua terza incarnazione recente. Il nuovo Uomo Ragno, chiamato in soccorso da Iron Man, perché forse nel film non c’erano abbastanza supereroi, è un ragazzino logorroico, con deficit dell’attenzione e tanta voglia di ottenere una borsa di studio. Sua zia May (un’adorabile vecchietta fin dal tempi del fumetto anni sessanta di Steve Ditko) è ora una Marisa Tomei matura ma decisamente sexy. A forza di far ringiovanire l’Uomo Ragno a ogni reboot, dovremo prepararci a uno Spider-Man che terrorizza la maestre di una scuola elementare.

Un’altra finezza è la maniera elegante con cui il film risolve uno dei cliché più ingombranti del cinema di supereroi: il trauma delle origini. Nonostante Iron Man sia al suo sesto film (con o senza i Vendicatori), Captain America: civil war ci costringe a rivivere la storia dei suoi genitori uccisi. Ma anziché tornarci grossolanamente in forma di flashback, ce la fa rivivere sotto forma di una conferenza dell’Mit in realtà aumentata. E la parte della storia che manca ci viene mostrata in un filmato delle videocamere di sorveglianza.

Captain America: civil war è un film virtuosistico, forse il punto più alto di questo modo di fare cinema d’azione. È un film sicuro dei suoi mezzi, che ti aggredisce da tutte le parti e non ti lascia un momento per tirare il fiato. Ha degli sprazzi d’ironia e d’intelligenza sapientemente alternati a scene catastrofiche. È chiaro però che questa formula si è esaurita: aspettiamo storie nuove e soprattutto dinamiche inedite tra i personaggi. E accontentarci non sarà difficile: Stan Lee ha ancora una riserva inesauribile di storie e di super-psicodrammi da mettere in scena.

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