Tiepolo, il pittore della felicità
Soffitti che si spalancano su cieli color turchese, rosa e oro. Nuvole che formano architetture capricciose, popolate da creature mitologiche piene di dolcezza e di giocoso erotismo. Personaggi allegorici riccamente pettinati e abbigliati che a malapena notano la presenza di noi mortali. Come scrive Roberto Calasso, Giovanni Battista Tiepolo (1696-1770) è stato “l’ultimo soffio di felicità in Europa”.
Pur avendo scritto un libro pieno di dotta ammirazione per l’arte tiepolesca, in quell’aggettivo, “ultimo”, Calasso ci dà la chiave per capire la scarsa fortuna di cui ha goduto la pittura del maestro veneziano per tutto l’ottocento e buona parte del novecento. Calasso descrive in dettaglio l’atteggiamento sprezzante che critici come Roberto Longhi avevano nei confronti della sua arte: Tiepolo era troppo frivolo, un servo dell’ancien régime che non capiva che il vento stava cambiando. Longhi è arrivato a immaginare un dialogo tra Tiepolo e Caravaggio, in cui il veneziano avanzava pochi e flebili argomenti davanti alla forza del “realismo” e della “verità” del suo avversario. Al di là dello scarso interesse che Longhi aveva per la sua pittura, Giovanni Battista Tiepolo è sempre stato descritto come un artista terminale: “l’ultimo dei virtuosi italiani”, “l’ultimo grande pittore veneziano”, “l’ultimo dei grandi decoratori barocchi”. Insomma, per una specie di contrappasso ideologico, non privo di moralismo, l’arte di Tiepolo è sempre stata legata alla fine di qualcosa e mai all’inizio di qualcos’altro.
Tiepolo. Venezia, Milano, l’Europa, la bella mostra milanese che le Gallerie d’Italia dedicano a Giovanni Battista Tiepolo, alla sua bottega e ai suoi viaggi, è un’occasione per scoprire un Tiepolo molto più proiettato nel futuro di quanto ci sia stato raccontato.
Forse la cosa che i critici più bacchettoni non hanno mai perdonato a Tiepolo è la sua facilità. Il virtuosismo di Tiepolo si esprime sia nel disegno sia nel colore e come tutti i grandi virtuosi, fa sembrare facile l’impossibile. Non si può non sorridere quando si guarda un soffitto tiepolesco, non è possibile non rimanerne risucchiati. Le nuvole iridescenti, le brezze che gonfiano mantelli e drappi fatti di tessuti cangianti, i nudi di zucchero, le architetture senz’altro scopo che lo stupore, sono una via di fuga dalla realtà. La Serenissima è in piena decadenza, i suoi committenti, soprattutto in Italia, sono esponenti di una nobiltà sempre più recente e parvenu, eppure Tiepolo evoca per loro i sogni più belli. Ha ragione Longhi quando dice che l’arte di Tiepolo è l’opposto del realismo, ed è anche vera l’osservazione un po’ ovvia che la pittura tiepolesca è teatrale, là dove per teatro s’intende solo mondano e frivolo divertimento. Le sue Cleopatre e le sue Ifigenie vengono perennemente rievocate sulle copertine dei cd di opere liriche di Händel e Vivaldi perché è facile vederle solo come attrici che abitano complicate scenografie e cavalcano mirabolanti macchine sceniche.
Eppure Tiepolo era tante altre cose, e per arrivare a quella capricciosa leggerezza che tanto piaceva ai suoi committenti aggirava con eleganza, anzi con somma sprezzatura, molte regole della pittura del suo tempo.
Il Ratto di Europa (1720-1722) e la Contesa tra Apollo e Marsia (1720-1722), due opere giovanili in mostra a Milano, non ci raccontano né il rapimento della ninfa e neanche lo scorticamento del sileno che osò sfidare Apollo, ma in un paesaggio variegato e spazzato dalla luce, ci fanno assistere al “prima”, con un sottile gioco di sguardi e di gesti. Alcuni dettagli sono leziosi, come il putto che fa la pipì da una nuvola, o garbatamente licenziosi, come le ancelle di Europa che sembrano delle giovani contadine accaldate e un po’ esibizioniste. C’è un’atmosfera sospesa: il giovane Tiepolo è già il regista che prepara il suo pubblico al colpo di scena. Il toro che rapirà Europa è appena visibile e sembra distratto, e una ninfa dietro a Marsia si copre il volto disperata perché ha già capito prima di tutti gli altri che la sfida con Apollo sta finendo male.
La pittura di Tiepolo dà il suo meglio sui soffitti, ammirata dal basso, a testa in su, con il collo che fa male. Questa mostra ha il vantaggio di avvicinarci alla sua pittura, anche fisicamente. I disegni, certe piccole tele, i lacerti di affreschi staccati fanno planare le sue invenzioni alla nostra altezza e ne mostrano l’incredibile artificio. “Il disegno è la probità dell’arte”, diceva Ingres pensando a Raffaello. In Tiepolo il disegno invece è serpentina, velocissima soluzione di un problema in punta di penna, è astuzia, è sottigliezza. Altro che probità. Il suo segno è inafferrabile, più veloce del nostro occhio: sembra quasi di vedere il gesto sicuro con cui diluisce l’inchiostro quando vuole dare un po’ di volume o di chiaroscuro alle sue figure. I disegni del cosiddetto Album Horne mostrano la modalità “industriale” con cui Tiepolo lavorava: schizzava singole figure o gruppi di personaggi in varie pose e in varie situazioni che avrebbe usato per popolare i suoi cieli e le sue architetture immaginarie. Si creava un repertorio di personaggi; con la penna, la grafite e l’inchiostro faceva il suo casting per gli attori che avrebbero abitato le sue mirabolanti scenografie.
La mostra segue la fortuna di Tiepolo da Venezia a Milano e da lì lo segue in Germania fino all’approdo in Spagna dove morirà nel 1770. In questo senso Tiepolo, insieme a Sebastiano Ricci presente anche lui nelle sale delle Gallerie d’Italia, è in effetti uno degli ultimi virtuosi italiani a viaggiare per le corti d’Europa, ma ridurre tutto il suo mondo a vacua decorazione sarebbe un errore: nel disegno inafferrabile di Tiepolo si percepisce qualcosa di Goya e della libertà febbrile del primo romanticismo. E i suoi cieli affollati di nuvole e di creature diafane non sono il tramonto della grande arte italiana come ci hanno insegnato, ma forse sono l’alba di qualcosa che sta per succedere. Nei suoi cieli aperti c’è già quella voglia di sfondare i soffitti degli atelier e delle accademie per cercare di fissare luce, aria e vento sulla tela. Qualcosa del genere doveva aver sentito Edgar Degas, un pittore che più di cento anni dopo avrebbe cercato la “realtà”, qualunque cosa fosse poi la realtà, proprio nei teatri. A fine ottocento scriveva all’amico Henri Rouart che si trovava a Venezia: “Fatemi il piacere di abbandonare per un momento le vostre amiche e di entrare a palazzo Labia per vedere, metà per voi e metà per me, gli affreschi di Tiepolo”.
La mostra Tiepolo. Venezia, Milano, l’Europa è aperta alle Gallerie d’Italia, Milano, fino al 21 maggio 2021.