Nella stanza dei giochi di Pino Pascali
La prima cosa che si vede entrando è una piccola opera del 1964. In realtà è composta da due opere diverse assemblate insieme: Personaggio, una bottiglia di champagne in plastica, e Teatrino, una struttura di legno e tela dipinta che ricorda appunto un teatrino per le marionette. La bottiglia è proprio un personaggio e occupa tutta la scena di questo buffo palcoscenico come il feroce Saladino dei pupi siciliani.
Questo assemblaggio, che fu esposto per la prima volta alla galleria La tartaruga di Roma nel 1965, ha qualcosa di ingenuo e giocoso, tra il malinconico e il poetico, e racchiude i tanti aspetti della pratica artistica di Pino Pascali (1935-1968): ci sono il gioco, il richiamo all’infanzia, la finzione barocca del teatro, la bottiglia-personaggio (che non è neanche vera ma di plastica, un oggetto di scena da cinema o da vetrina più che un ready made duchampiano), l’uso di materiali poveri e riciclati per la creazione di qualcosa di effimero e graziosamente precario.
Pino Pascali negli anni cinquanta era arrivato a Roma dalla Puglia e, prima di diventare un artista figurativo, aveva lavorato in televisione e nella pubblicità come scenografo. Quel suo assemblaggio ricorda infatti Carosello, la trasmissione della Rai che, dal 1957 al 1977, trasmetteva la pubblicità prima che i bambini fossero mandati a letto. Teatrino e Personaggio sembrano usciti da Carosello ma più che venderci qualcosa ci parlano di come Pascali, nel 1964, avesse superato la pop art.
La bottiglia-personaggio è un malinconico brandello della società dei consumi più che un oggetto feticizzato, e le lucine elettriche illuminano un palcoscenico povero, rimediato, in cui però con la fantasia si può mettere in scena tutto, da Shakespeare alla guerra del Vietnam. Teatrino e Personaggio aprono la retrospettiva che la fondazione Prada dedica all’arte di Pino Pascali, una mostra ricchissima che copre solo quattro anni di attività e sperimentazioni: Pascali è morto a 33 anni l’11 settembre 1968 in un incidente con la moto.
La prima sezione ricostruisce tutte le personali dell’artista in esposizioni sparse tra Roma, Torino e la Biennale di Venezia del 1968. Gli spazi delle gallerie L’attico di Roma e Gian Enzo Sperone di Torino sono ricostruiti fedelmente con le opere posizionate nello stesso modo di allora. Ed è un tuffo nelle neoavanguardie degli anni sessanta. L’attico di Fabio Sargentini dal 1967 sarebbe diventato uno dei punti di riferimento per il movimento dell’arte povera, di cui Pascali era considerato un esponente un po’ sui generis e la galleria Sperone di Torino, con i suoi contatti con la galleria Leo Castelli di New York, negli Stati Uniti, era l’ambasciata della pop art statunitense in Italia. In quel mondo Pascali si muoveva con la grazia e la leggerezza di un folletto, raccogliendo spunti e giocando con tecniche, pratiche e materiali. In una filastrocca ha così descritto la sua poetica: “Io son come un serpente/ ogni anno cambio pelle/ la mia pelle non la butto/ ma con essa faccio tutto/ Quel che ho fatto di recente/ già da tempo mi repelle”.
In realtà qualcosa Pascali aveva buttato: quasi prevedendo la sua morte prematura aveva chiesto al padre di distruggere tutte le sue opere anteriori al 1964. Quelli che vediamo alla fondazione Prada sono quindi quattro anni che racchiudono il Pascali che lui stesso voleva vedessimo. Un artista assolutamente italiano, anzi mediterraneo, che però guardava agli Stati Uniti come “un altro mondo”.
L’artista Janis Kounellis così descriveva le passioni del suo amico: “Pino amava Pollock, il mare (la pesca subacquea), i giochi (i giocattoli), Rauschenberg, Jasper Johns, le armi, gli attrezzi da lavoro, Oldenburg…”. Lui fantasticava sull’America “della fantasia, dell’infanzia… di certi films” ma non lo faceva da provinciale, dalla periferia dell’impero. Lo faceva da genio mediterraneo che, radicato nel suo mondo, fatto in parti uguali di natura e di città, allungava lo sguardo dall’altra parte dell’oceano, dove vedeva un’arte ancora giovane, non una cultura necrofila e putrefatta come quella europea. L’unico artista italiano che vedeva come un mentore era Burri, il maestro dell’astrattismo materico, dei sacchi e della plastica bruciata, che aveva cominciato a fare l’artista nel 1944 in un campo di prigionia del Texas. E proprio usando legno e materiali di scarto.
Terra, acqua, eternit e lana di vetro
Quello dei materiali è il grande tema della seconda parte della mostra ed è forse il nodo centrale per capire l’arte di Pino Pascali, troppo pop per essere un minimale o un pauperista e troppo mediterraneo e immerso nella natura per essere un interprete della società dei consumi di massa. I materiali usati da Pascali sono sia naturali sia industriali, e spesso lui ama impiegarli in modo sorprendente. I Bachi da setola (1968) sono scovoli di acrilico trasformati in larve e i Campi arati e canali d’irrigazione (1967) sono lastre di ondulit con della terra appiccicata sopra. Al contrario, 1 metro cubo di terra (1967) è esattamente un metro cubo di terra, ma compattato e trasformato in una scultura che ha più a che fare più con la minimal art sttunitense che con la campagna.
E poi c’è il Pascali performer, la rockstar, l’esibizionista spesso mezzo nudo o vestito un po’ da coatto e un po’ da sciamano: pantaloni di velluto attillati e a vita bassa, gilet aperti sul petto magro e nervoso, occhialoni da sole, capelli ricci in disordine, la paglia di un suo stesso lavoro usata come costume di scena. È il Pascali che vediamo nel video SKMP2 di Luca Patella o nelle foto che gli hanno scattato Ugo Mulas, Andrea Taverna e Claudio Abate. In queste immagini Pascali interagisce in modo scherzoso con le sue stesse opere. Non sono documenti di una performance (come usava in quegli anni), quanto bizzarre e sconclusionate foto promozionali. In molte, soprattutto quelle di Mulas, mi sembra di vedere un riflesso dell’estetica del tropicalismo che in quegli anni stava trasformando la musica e la cultura brasiliana, una sorta di sciamanesimo pop, di rituale fricchettone e un po’ sconvolto.
In una conversazione del 1967 con Carla Lonzi, critica d’arte femminista, Pascali ha detto: “Non credo che uno scultore faccia un lavoro faticoso: egli gioca, anche il pittore gioca; come tutti coloro che fanno ciò che vogliono. Il gioco non è solamente appannaggio dei bambini. Tutto è gioco, non è d’accordo?”. Questo negare che l’arte sia un lavoro ma che sia anzi un’attività libera e in antitesi con il lavoro produttivo è la vera eredità che Pascali ha lasciato ai movimenti del 1967 prima e del 1977 poi, quelli degli slogan “la fantasia al potere” e dello sberleffo. E il fatto che Pascali sia morto prima di vedere com’è andata a finire ha una sua struggente poesia, che rimane addosso anche giorni dopo aver visitato la mostra.