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Carla Accardi, arcade ribelle

L’opera Tenda (a destra), nell’allestimento del Palazzo delle esposizioni, Roma. (Azienda Speciale Palaexpo/Monkey VideoLab)

“Scultori muscolosi, ideologi / pretesero da Carla, chiarimenti; / anche il luogo di provenienza, / e strabiliarono alla vista / della sua mirabile risposta. “Sbarco dall’Arcadia”, / c’era del vero nell’assonanza col suo cognome: Accardi, / ma lei era un’àrcade ribelle”. In questi versi che il poeta Valentino Zeichen (1938-2016) dedicò all’amica Carla Accardi c’è una possibile chiave per capire la sua opera pittorica in mostra, mai in modo così completo, al Palazzo Esposizioni di Roma fino al 9 giugno. La retrospettiva, curata da Daniela Lancioni e Paola Bonani in occasione del centenario della nascita dell’artista, raccoglie più di cento opere concepite tra il 1946 e il 2014, che spaziano dai suoi primi esperimenti di studente all’accademia di belle arti di Firenze fino alle grandi tele degli anni novanta e duemila.

Carla Accardi in qualche modo veniva dall’Arcadia: era nata nel 1924 a Trapani, in un’agiata famiglia borghese. Ma come arcade ribelle Accardi era poco sensibile al fascino pittoresco della sua terra: ne apprezzava i colori e la luce (elementi che ha ritrovato nell’amatissimo Matisse), ma non ha mai fatto della sua sicilianità un fatto banalmente identitario. Accardi era una ragazza colta e curiosa che si affacciava all’arte nel 1946, quando tutto era da ricostruire: non c’era tempo per antichità e svenevolezze da grand tour, c’erano istanze politiche e poetiche urgenti e tutta una modernità da recuperare, un linguaggio da rifondare dopo vent’anni di dittatura fascista, di ritorni all’ordine e appelli al classicismo. E soprattutto aveva la sua personalità di artista da costruire: per lei, si vede fin dalle primissime opere esposte, era fondamentale agire nel mondo come creatrice.

Nei versi di Zeichen Carla appare circondata da “scultori muscolosi” e “ideologi”, e in effetti è stata l’unica donna, nel 1947, ad aderire al gruppo Forma 1 insieme a grandi nomi dell’astrattismo italiano come Turcato, Consagra, Attardi, Dorazio, Perilli e Sanfilippo (che sposò nel 1949). Era un gruppo d’avanguardia marxista e formalista, formato da uomini ideologizzati (nell’immediato dopoguerra ideologia non era ancora la parolaccia che ci vorrebbero far credere oggi) e da personalità ingombranti, ma Accardi aveva le spalle larghe, sia ideologicamente sia artisticamente. Nella ricca antologia critica riportata nel catalogo della mostra edito da Quodlibet mi hanno colpito le parole di Giulio Turcato, che già nel 1950 descriveva così la sua sodale: “Una siciliana venuta a Roma due o tre anni fa che ha sradicato da sé quei pregiudizi e quel senso di falsa maternità e modestia per cui tutte le pittrici hanno la loro discendenza assolutamente segnata da Rosalba Carriera”.

Assedio rosso n. 3, 1956.

Rosalba Carriera era la pastellista, miniaturista e ritrattista della nobiltà francese del secondo settecento. Simbolo non solo di un’arte femminile mondana, leziosa e decorativa ma anche asservita al potere assoluto dell’ancien régime. Un comunista tutto d’un pezzo come Turcato nel 1950 ha anche il coraggio di parlare di “falsa maternità”, sfiorando forse inconsciamente un tema, quello della mistica della maternità, su cui avrebbero riflettuto molto le femministe della seconda ondata.

La prima sala della mostra racconta una giovane artista che già padroneggia i linguaggi delle avanguardie storiche: Vista su un campo da tennis del 1947 è un piccolo olio su tela in cui il rosso del campo da tennis spezza il verde di una vegetazione cubo-futurista. Sono già i colori dell’Accardi astratta degli anni successivi, che scalpitano per uscire dall’angustia della forma. C’è fin d’ora quel senso di urgenza del colore, della fuga dalla tela, dell’irruzione del segno nel reale.

L’evoluzione vertiginosa dell’astrattismo di Accardi prosegue nelle sale dedicate agli anni cinquanta e sessanta: tra il 1953 e il 1954, un biennio decisivo, il suo linguaggio si fa sempre più asciutto, maturo ed efficace. Il suo gesto pittorico si allontana da quello degli artisti informali (che in Francia e negli Stati Uniti andavano per la maggiore) per diventare un gesto-segno: le sue tele più grandi e tendenti al monocromo si riempiono di una scrittura febbrile, che supera gli automatismi del surrealismo per approdare a un nuovo linguaggio compiuto e strutturato. Dal 1956 ricompare il colore: il rosso in Labirinto con settori e Assedio rosso n.3. Soprattutto nel suo lavoro tra gli anni cinquanta e sessanta notiamo il bisogno di Accardi di trascendere la tela: Rossoverde e Verderosso, entrambi del 1963, ci provano ingannando l’occhio con uno stratagemma tipico della optical art. Ma è con la Tenda del 1965-1966 che Accardi fa saltare il banco: non dipinge più su tela ma applica il colore (non più tempera ma vernice) sul sicofoil (un foglio trasparente simile a quello usato per le lavagne luminose) e soprattutto esce della bidimensionalità del quadro per creare una sorta di dipinto-ambiente tridimensionale e abitabile dallo spettatore.

Animale immaginario 1, 1987.

Il 1970 fu un anno cardine per la carriera di Accardi: l’anno dell’incontro con la critica e teorica Carla Lonzi e della sua adesione al femminismo. Nel luglio del 1970 con Lonzi ed Elvira Banotti fondò il gruppo Rivolta femminile e disegnò anche il logo che compare nel loro primo manifesto: una sorta di geroglifico anti-fallico che suggerisce l’idea di due entità paritarie che si uniscono senza penetrarsi. “Comunichiamo solo con donne”, così si chiudeva il manifesto più radicale del femminismo italiano, all’insegna dell’autodeterminazione e soprattutto dell’autocoscienza. Ed è stata proprio la pratica dell’autocoscienza a insegnare ad Accardi la differenza tra donna e persona, e tra persona e artista.

Era rimasta la stessa ragazza del 1947, quella che più di ogni altra cosa voleva essere artista e questa sua volontà di creazione travalicava tutto il resto. Il femminismo della differenza e l’autocoscienza sono stati per lei strumenti per arrivare alla piena, matura e meditata consapevolezza di essere artista nel mondo. E inevitabilmente è subentrata la crisi: quello dell’autocoscienza era un perimetro troppo angusto, era un’altra tela da cui uscire, un’altra autorità da mettere in discussione. In una lettera indirizzata a Carla Lonzi del 1973 e mai spedita (la cita Daniela Lancioni nel catalogo), Accardi scriveva: “Rifiutavi nel femminismo qualsiasi attività che non fosse collegata con lo scrivere in autocoscienza, e il mio accenno ad un diritto ad esprimermi con altro linguaggio o attività lo consideravi compromesso”.

Accardi si riavvicinò al femminismo nel 1976 aderendo alla Cooperativa Beato Angelico, un gruppo di donne, artiste, storiche e attiviste che volevano discutere e mettere in prospettiva il ruolo delle donne nella storia dell’arte. Ne faceva parte Eva Menzio, che raccolse e curò la prima raccolta delle lettere della pittrice caravaggesca Artemisia Gentileschi, inaugurando una lettura critica femminista del suo lavoro. L’esperienza fu fondamentale per Accardi, che aggiunse una dimensione storica e di memoria al suo essere artista, donna e femminista.

La sala numero 5 della mostra al Palazzo Esposizioni è dedicata in larga parte a Origine, un’opera di rottura del 1979, che fu esposta per la prima volta nella sede della Cooperativa. Con questo lavoro Accardi usciva dall’astrattismo per avvicinarsi a una forma personalissima di narrative art. Su due pareti bianche contrapposte si fronteggiano il ritratto ottocentesco di un’antenata di Accardi e una serie di strisce di sicofoil a cui si alternano piccole fotografie di Accardi stessa e di sua madre. Più che un atto di creazione, Origine è un tentativo di documentazione e di ricontestualizzazione, e rimane un lavoro unico nella sua carriera. La mancanza di didascalie rende l’opera antinarrativa, ma allo stesso tempo invita a una sorta di ricostruzione di un’origine matrilineare della sua persona e della sua arte, andata perduta nel tempo e mai propriamente documentata, come la maggior parte del lavoro femminile nella storia dell’umanità.

Accardi esce rigenerata da questo suo nuovo modo di essere artista e femminista. Negli anni ottanta, per tornare alle parole di Valentino Zeichen, da “arcade ribelle” diventa lei stessa “scultrice muscolosa”. Le sue tele astratte si fanno sempre più grandi e monumentali nella composizione: la tela con cui aveva combattuto tutta la vita ricompare, spesso grezza e non preparata, come “negativo” per far risaltare il “positivo” del suo segno-colore, libero e gioioso nella sua danza. Animale immaginario I del 1987 e Senza titolo del 1988 sono opere spettacolari, piene di energia: lo spazio non è più un problema o un dilemma per la Accardi matura, ma è una possibilità infinita. L’ultima opera che si vede in mostra è Imbucare i misteri. È del 2014, l’anno della sua morte, ed è un vinilico su tela di dimensioni medie, in cui nero, bianco e blu si fondono dando l’idea di una forza tranquilla. La forza di un’arcade ribelle che non ha più nulla da dimostrare se non la bellezza della sua visione.

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