Questo articolo è uscito il 5 febbraio 2010 sul numero 832 di Internazionale.
Un potente rabbino del quartiere di Williamsburg, a New York, non voleva piste ciclabili vicine al ghetto ebraico. La vista di ragazze con la testa e, a volte, perfino i polpacci scoperti sarebbe stata insopportabile, anche se adesso è inverno e in questo periodo le ragazze sicuramente vanno in giro infagottate. Insomma, il potente rabbino ha protestato con il dipartimento dei trasporti insistendo che le piste dovevano sparire. E le piste sono sparite nel giro di qualche settimana. Come prevedibile, dei giovani (ebrei) hanno rifatto la pista dipingendola a mano, e hanno scatenato l’ira del rabbino: il suo gruppo di vigilantes ha trattenuto i ragazzi finché è arrivata la polizia. Poi ha chiesto che i ragazzi fossero arrestati, e così è stato: si sono presentati spontaneamente.
D’accordo, a prima vista sono pretese assurde se vivete a New York. Il fatto è che i cassidici non dovrebbero vedere donne mezze nude, e in passato si sono lamentati anche per i manifesti osé (la pubblicità di Sex and the City) sulla strada che unisce Brooklyn a Queens. Ma come fanno quando arrivano a Manhattan per lavorare? Si mettono una benda sugli occhi finché entrano nei negozi? Per di più, la strada che fiancheggia il ghetto cassidico è praticamente l’unico percorso per andare in bici da Williamsburg a Dumbo o a Brooklyn Heights. Perciò, pista ciclabile o no, il flusso di cicliste sexy è destinato a continuare, anche se con maggiori rischi per la loro sicurezza. Forse si potrebbe pensare a un servizio che offra ali e mantelli alle cicliste che attraversano la “no skin zone”.
C’è chi dice che l’abbigliamento indecoroso è solo una scusa, mentre il vero problema è quello di lasciare intatto il numero delle corsie per le automobili all’interno del ghetto e ripristinare i parcheggi che sono stati divorati dalla pista ciclabile. La necessità di tanti parcheggi è dovuta al fatto che i cassidici spesso non viaggiano in metropolitana e sugli autobus, ma a bordo di furgoncini o pullman, e i piccoli spostamenti (per la spesa eccetera) avvengono per lo più con macchine private. I bambini vanno a scuola con autobus che parcheggiano dove, fino a poco fa, c’erano le piste ciclabili. Questo stile di vita presuppone parecchio spazio per i parcheggi. E ho il sospetto che sì, a volte certi ciclisti sfreccino un po’ troppo distrattamente vicino ai bambini che vanno a scuola. Ma piste ciclabili o no, i parcheggi a New York sono sempre più rari perciò, alla fine, forse bisognerà cambiare qualcosa. Ad Anversa, il centro europeo per il commercio cassidico dei diamanti, i giovani cassidici girano in bicicletta.
Le biciclette sono la mia passione, e si potrebbe pensare che io le difenda sempre e comunque, ma qui esprimo un dubbio più generale: fino a che punto possiamo consentire ai gruppi etnici e religiosi di non integrarsi e di non diventare parte del più ampio tessuto sociale, soprattutto nelle grandi metropoli? (Non stiamo parlando delle comunità rurali, dove la gente può vestirsi come vuole ed essere strana quanto vuole). Multiculturalismo, suppongo, vuol dire che non si devono costringere le altre culture e gli immigrati ad adeguarsi alla cultura del gruppo etnico dominante: dovremmo rispettare l’integrità delle loro convinzioni e dei loro costumi. Questo non significa solo permettere ai macellai halal e kosher di aprire bottega, ma implica che dovremmo cominciare a vedere le cose dal punto di vista dell’altro, e qualche volta dare spazio ai suoi desideri, anche se non seguono quelli della maggioranza. Ma dopo l’11 settembre questi princìpi sono sempre più in discussione: l’Europa, storicamente piena di enclave musulmane e ghetti di vario tipo e di diverse etnie, mette in discussione il multiculturalismo adottando posizioni più sfumate. A volte. Altre volte l’intolleranza rialza la sua brutta testa.
Anche i ciclisti di New York, che sono una minoranza, potrebbero essere considerati così: sono parte di una cultura marginale e sono accettati e tollerati da quella dominante, purché non pretendano di piegarla ai loro desideri.
Non dire sempre quel che si pensa non significa necessariamente essere bugiardi. Soffocare appena un po’ la libertà di parola può rendere la vita più piacevole a tutti
Nei Paesi Bassi, forse il paese più tollerante del mondo, si comincia ad accettare che la tolleranza debba andare in entrambe le direzioni. In altri termini, ci si aspetta che gli immigrati musulmani – se lo aspettano perfino gli altri musulmani di Amsterdam – diventino “olandesi”. Devono accettare, cioè, che nei Paesi Bassi, soprattutto ad Amsterdam, esiste una lunga tradizione di tolleranza, e se qualcuno vuole trasferirsi nel paese deve pensare di adattarsi a questa mentalità. La comunità musulmana, per esempio, deve abituarsi al fatto che esiste un quartiere con sexy shop e donne seminude in vetrina, che le coppie dello stesso sesso possono baciarsi in pubblico e che i coffee shop dove si vende la marijuana sono dappertutto. È sottinteso che vivere nei Paesi Bassi significa accettare queste cose, per quanto possano sembrare sgradevoli. Gli olandesi, ovviamente, permettono alla popolazione musulmana locale di conservare i suoi costumi, purché riesca ad adattarsi e non abbia troppe esigenze.
È un grande cambiamento rispetto al contesto che nel 2004 ha portato all’omicidio di Theo Van Gogh. Il regista aveva realizzato un breve film, Submission, insieme ad Ayaan Hirsi Ali, attivista e scrittrice di origine somala (che da allora vive sotto la protezione del governo statunitense, e lavora anche per l’American enterprise institute, un centro studi americano di destra). Submission presentava una donna nuda avvolta in un chador trasparente, con i versetti del Corano che giustificano la sottomissione delle donne scritti sul corpo. Come le vignette danesi, le immagini furono giudicate dai musulmani una rozza provocazione, espressione di una sorta di fascismo liberale.
Dopo la morte di Van Gogh gli olandesi hanno organizzato manifestazioni di protesta, considerando il suo omicidio come un tentativo di soffocare la libertà di espressione. C’era chi sosteneva che bisogna poter dire ed esprimere qualsiasi cosa, purché non si istighi alla violenza. Altri pensavano che il film fosse offensivo e provocatorio, e in un certo senso gli autori se la fossero cercata. La libertà di espressione per i suoi difensori è un valore assoluto: tutti dovrebbero poter dire qualsiasi cosa, perché in fondo sono “solo parole”.
Ian Buruma, un intellettuale di origine olandese, ha scritto che la libertà di parola non deve essere considerata un valore assoluto ed è sempre sbagliato ragionare a compartimenti stagni. Il giornalista osserva che noi stessi ci autocensuriamo continuamente – per esempio con la nostra famiglia e i parenti durante le feste – e lo facciamo per andare d’accordo, per consentire alla società di funzionare, per la nostra felicità e la felicità degli altri. Non dire sempre quel che si pensa non significa necessariamente essere bugiardi. Durante le feste di famiglia non prendiamo in giro zio Harry per il suo parrucchino, perché sappiamo che servirebbe solo ad aumentare il nervosismo della riunione familiare, e a chi gioverebbe questa insensibile onestà? Soffocare appena un po’ la libertà di parola, con qualche sottile autocensura, rende la vita più piacevole a tutti.
Nel 2006 Mamie Manneh, una donna di Staten Island, fu arrestata per aver importato 360 chili di carne di scimmia – zampe, teschi e torsi di babbuino e di cercopiteco gialloverde – in scatole con l’etichetta “Vestiti africani e pesce affumicato”. La donna affermò che la costituzione permette d’introdurre carne di scimmia negli Stati Uniti. I suoi avvocati sostennero che doveva mangiarla durante certe cerimonie religiose della sua fede sincretica, che fonde tradizioni cristiane e africane.
Secondo me, oltre a essere disgustosa, l’abitudine di mangiare carne di animali selvatici non è legata a nessuna tradizione. Questa carne è entrata nel consumo alimentare solo in tempi piuttosto recenti, per fame e per necessità. E sì, c’è chi è andato più in là e la considera un elemento rituale. Io obietterei che non si tratta di cibo sano e accettabile neppure in Africa, e se emigrate a Staten Island potrebbe essere una delle cose a cui dover rinunciare.
D’altra parte, però, c’è il recente referendum sui minareti che si è tenuto in Svizzera. Incredibile! Zurigo ha deciso di vietare la costruzione di minareti. Prevedo che altri paesi per ritorsione vieteranno le guglie tipiche delle chiese cristiane. Occhio per occhio. Il ragionamento della destra svizzera, se ragionamento si può chiamare, è che le moschee non sono svizzere, e quando uno si trova in Svizzera deve essere svizzero. Neanche McDonald’s è svizzero, e neppure tante altre forme architettoniche e ornamentali facilmente riconoscibili. Chissà, forse hanno una commissione di persone in buffi abiti alpini che decidono se gli edifici contemporanei sono “svizzeri” o no. Probabilmente le banche sono tutte svizzere, tranne quelle con qualche arabesco.
La storia è piena di infiniti tentativi di cancellare la cultura degli emigrati o di gruppi etnici. L’Unione Sovietica cercò di rendere russi tutti i gruppi all’interno delle sue sterminate frontiere. Stalin deportò intere popolazioni da una parte all’altra del continente per soffocare sul nascere qualsiasi rivolta o futura unità etnica. Ho visto gruppi kazachi dall’aspetto inequivocabilmente asiatico nella zona della Russia che confina con la Finlandia. In Tagikistan fu vietato l’alfabeto persiano, cancellando la storia letteraria tagica, e l’islam fu messo fuori legge. Questa intolleranza spesso ha un successo parziale: in molte di queste ex repubbliche sovietiche, l’islam e l’orgoglio nazionale si sono riaffermati con forza. Privare le persone della loro identità ha conseguenze spaventose. Quando il Tagikistan è diventato indipendente, nel 1991, il paese è sprofondato subito in una sanguinosa guerra civile.
Si spera sempre che prevalga il buon senso. Che male c’è se si costruisce un minareto in un quartiere? Immagino che qualcuno abbia una sua idea della purezza svizzera, e qualunque ricerca di purezza va sempre segnalata come un pericolo. Alcune cittadine italiane hanno messo al bando i locali che vendono kebab sostenendo, anche qui, che non sono italiani. Neanche i pomodori, se per questo. Per me, tutto ciò è assurdo come la storia del rabbino di Brooklyn, convinto che si debbano scoraggiare le ragazzine che vogliono andare in bicicletta nel suo quartiere.
Quando visitiamo santuari, templi, moschee e chiese in altre terre, noi – se abbiamo un minimo di sensibilità – rispettiamo i costumi locali. E possiamo aspettarci che gli abitanti di quelle terre facciano altrettanto quando si trovano all’interno dei nostri confini.
Il New York Times ha pubblicato questa lettera: “Mio marito era da Starbucks, leggeva il giornale e si godeva il caffè, quando otto persone si sono sedute e hanno aperto le loro Bibbie per pregare insieme. Poi uno di loro ha cominciato un sermone ad alta voce che mio marito ha trovato offensivo per il contenuto e per il volume eccessivo. Io dico che il gruppo stava esercitando un suo diritto. Mio marito sostiene che hanno usato il locale in modo inappropriato. Chi ha ragione?”. Il titolare della rubrica ha risposto che dal punto di vista legale gli evangelici stavano esercitando un diritto, ma la loro mancanza di empatia sociale era orrenda.
Come disse Rodney King: non possiamo semplicemente andare d’accordo? Possiamo tollerare la differenza, senza però spingere la tolleranza all’estremo, aspettandoci che tutti accettino insulti e provocazioni? Tolleranza non significa permettere a chiunque abbia uno stile di vita diverso dal nostro di spadroneggiare su tutti gli altri. Sembra che non esista una linea di confine assoluta tra il tollerabile e l’inaccettabile. La misura di quanto dovremmo tollerare sta nel capire se ci aiuta ad andare d’accordo. Se ci divide ulteriormente, allora forse non è una buona idea: il risentimento resterà sepolto, incancrenendosi, e riesploderà in qualche modo più tardi. E la linea di confine può spostarsi, non è immutabile.
Sono l’adattabilità e la capacità di accomodamento a renderci umani. Le categorie assolute sono per le macchine e le divinità vendicative. Quello che a volte chiamiamo buon senso – non prendere tutto alla lettera, la legge o la Bibbia – potrebbe essere un mezzo per sopravvivere. Ma poiché è un mezzo in continua trasformazione, è difficile da definire. Si impara, immagino, vivendo insieme, improvvisando, innovando, e non leggendo un manuale.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è uscito il 5 febbraio 2010 sul numero 832 di Internazionale.
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