Mia moglie mi ha sempre considerato essenzialmente inutile. Non come amante, marito o padre dei suoi figli (sebbene anche su questo abbia serie riserve), ma per quanto riguarda tutto ciò che è pratico.

Quando si tratta di cambiare una spina, montare una mensola o il bastone di una tenda, sa che se vuole che queste cose siano fatte bene (o comunque siano fatte) deve rivolgersi a qualcun altro. Agli occhi di una come lei, infermiera e figlia di un imprenditore edile, la mia scarsa praticità è incomprensibile.

Temo che sia un difetto comune a molti giornalisti. Non perché non riescano a capire le istruzioni per il montaggio di un mobile o la differenza tra un cacciavite e un martello (anche se molti, come me, hanno qualche difficoltà), ma perché hanno coltivato fin dall’infanzia l’arte di essere incapaci di fare le cose che non vogliono fare.

Quest’atteggiamento ha a che fare con l’egoismo e l’indulgenza verso se stessi che hanno in comune tutti quelli che si guadagnano da vivere scrivendo su un giornale o dirigendone uno (se mai scrivessi un libro intitolato Il cittadino quasi perfetto, uno dei miei consigli ai lettori sarebbe: non fate mai naufragio con un giornalista. Dovreste occuparvi voi di costruire un rifugio, andare in cerca di cibo e accendere un fuoco sulla spiaggia per attirare l’attenzione degli aerei che vi stanno cercando. Il vostro compagno penserà solo all’articolo che scriverà dopo che vi avranno salvati).

Questa è probabilmente la caratteristica più tipica dei giornalisti, o almeno dei migliori: tendono a vedere il mondo come materia prima per i loro articoli.

Fin dall’inizio del nostro matrimonio mia moglie si è accorta che, quando arrivava la notizia di un’alluvione, di una carestia o dell’eruzione di un vulcano, la mia reazione non era, come la sua, di compassione per le vittime. Non mi chiedevo cosa potevo fare per aiutarle, ma mi emozionavo al pensiero di un articolo da prima pagina.

Questa reazione (comune a tutti i bravi giornalisti) forse è la prova che siamo insensibili per natura. La questione è interessante, ma è la classica domanda dell’uovo e della gallina: la capacità di considerare le catastrofi come opportunità professionali è una delle componenti del buon giornalismo o è il nostro lavoro che ci porta a reagire in questo modo?

Ho il sospetto che sia più corretta la prima ipotesi: cioè che bravi giornalisti si nasce, non si diventa. Dopotutto, i corsi universitari possono insegnare agli aspiranti reporter come comportarsi in caso di catastrofe.

Ma nessun professore al mondo può insegnare ad avere una scarica di adrenalina. L’atmosfera che si respira nella redazione di un giornale quando arriva la notizia di un evento grave è simile (se riuscite a sopportare l’idea) a quella di una nave piena di marinai che getta l’ancora in un porto famoso per la compiacenza delle sue donne: si può quasi sentire l’odore del testosterone.

Quindi, se non vi sembra troppo di cattivo gusto, potete immaginare quanto mi sono dato da fare nelle settimane dopo il terremoto ad Haiti. Subito dopo la tragedia ho scritto quarantamila caratteri sul terremoto.

E mentre vivevo, mangiavo e respiravo quella storia, ho imparato qualcosa di nuovo su come si comportano i mezzi d’informazione moderni in circostanze così estreme. Ero io la persona incaricata di restare in redazione, scrivere il commento sul terremoto e poi gli articoli mano a mano che le notizie arrivavano.

Avevo messo anche tre stagisti a setacciare internet alla ricerca di blog, messaggi, post di Facebook e di Twitter su Haiti. Ma confesso di non aver usato più di qualche frase delle pagine e pagine di opinioni scontate e delle reazioni emotive che hanno trovato.

Arriverei addirittura a dire che per quanto riguarda le notizie da Haiti, se internet non avesse funzionato per tutta la settimana il mondo non se ne sarebbe accorto. Sono stati i giornalisti della vecchia scuola, attirati dalla morte e dalla distruzione come la limatura di ferro da una calamita, a raccontare al mondo quello che stava succedendo.

Sembra che la nostra apparente insensibilità, in fondo, abbia i suoi lati positivi. E, dopo aver letto i miei articoli su Haiti, l’ha ammesso perfino mia moglie. In questi giorni ha anche scoperto un’eccezione alla mia totale inutilità.

Da molti mesi stava cercando di ricostruire il suo albero genealogico. Alla fine ha accettato la mia offerta di aiuto e, usando le normali capacità di ricerca di un giornalista, sono riuscito a risalire ai suoi antenati fino al 1781.

Non sarò capace di montare una mensola, ma so costruire un albero genealogico e, dato che queste cose in Gran Bretagna oggi vanno molto di moda, non è un talento da poco. Di conseguenza adesso sono considerato una rarità: un giornalista che ogni tanto si rivela utile anche come marito. Anche se sono sicuro che non durerà.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 837, 12 marzo 2010*

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