Si dice che un uomo sul punto di annegare veda scorrere davanti a sé tutto il suo passato. Sono sempre stato scettico su questo, e penso che in quella situazione un uomo tenti di restare a galla, chieda aiuto o cerchi qualcosa a cui aggrapparsi invece di ricordare cosa ha detto al suo capo nel 2006.

Ultimamente però ho vissuto qualcosa di simile: ho visto passare davanti ai miei occhi alcuni momenti della mia vita. Di solito non sono portato per l’introspezione (almeno non da quando ho smesso di ciondolare nella mia stanza da adolescente), ma mi sto preparando a essere intervistato sui miei quarant’anni di carriera giornalistica al festival d’Internazionale a Ferrara. Così ho ripensato al passato e ho preso qualche appunto su tutti gli strani personaggi che ho incontrato, i posti bizzarri in cui sono stato, gli improbabili e orribili alberghi in cui ho dovuto dormire, gli articoli di cui mi vergogno di più (o sono più orgoglioso), i consigli migliori (e peggiori) che mi hanno dato, le fortune che mi sono capitate, e il modo in cui sono riuscito a sopravvivere per tutto questo tempo senza essere scoperto.

È stato come progettare la mia autobiografia, una cosa che il mio editore mi ha chiesto di fare, ma che non ho mai avuto il coraggio di scrivere. Non è tanto una questione di modestia, quanto del fatto che in quasi tutte le vite i frammenti più interessanti non sono facili da inserire in un’unica narrativa. Non ho dovuto superare grandi ostacoli e non sono diventato particolarmente importante o famoso. Come capita alla maggior parte di noi, anche la mia vita è stata una serie di episodi spesso scollegati, frutto del caso più che della mia volontà.

Per questo avevo sempre messo da parte l’idea di un’autobiografia, finché qualche mese fa sono entrato in una libreria. Sono appassionato di biografie e autobiografie e sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da comprare. Da qualche tempo so che vanno di moda i cosiddetti misery memoirs, autobiografie che si crogiolano nel racconto di una vita di maltrattamenti, crudeltà, abbandoni, disprezzo o di tutte queste cose. Non mi hanno mai attirato molto, e ho sempre pensato che chi le compra sia l’equivalente letterario di chi rallenta per curiosare quando si imbatte in un incidente stradale. In alcuni casi gli autori esagerano volutamente la gravità dei loro traumi. Ma non mi ero reso conto di quanto fossero popolari finché non sono entrato in quella libreria, dove c’era un’intera sezione dedicata ai misery memoirs.

Questo mi ha fatto pensare che, per bilanciare tutta questa roba deprimente, ci vorrebbe una sezione intitolata happy memoirs o almeno “autobiografie di persone trattate bene dalle loro famiglie”. Il problema è che quasi nessuno scrive libri del genere, dato che di solito l’armonia è meno interessante dei conflitti familiari.

Così ho pensato che qualcuno doveva sistemare le cose e ho cominciato a progettare un libro sulla mia vita o, meglio, su una parte della mia vita. Probabilmente pensate che uno che ha lavorato quarant’anni nei giornali voglia scrivere di questo. Ma la maggior parte dei giornalisti, me compreso, fa una vita molto meno emozionante di quello che si pensa, e tutte le notizie sul mio lavoro che possano risultare anche lontanamente interessanti le ho già date nei miei libri sul giornalismo. Quindi il libro che ho in mente riguarda la mia infanzia o, meglio, le persone e i luoghi della mia infanzia.

Sono nato fortunato. I miei genitori si adoravano (li ho visti litigare una sola volta e un minuto dopo si stavano abbracciando). Ho un gemello, quindi da piccolo ho sempre avuto un compagno di giochi e ora ho un amico (ci sentiamo al telefono tutti i giorni). Vivevamo tra parchi e boschi e passavamo il tempo andando in bicicletta, accendendo falò, costruendo dighe sui ruscelli e chiedendoci cosa fossero le ragazze. Le uniche persone che ho visto morire erano molto anziane, e mio padre credeva in quello che chiamava “investire nei ricordi”: non spendevamo i nostri soldi per comprare azioni e obbligazioni, ma per divertirci e andare in vacanza.

A Natale sembravamo italiani: la nostra casa si riempiva di parenti, con i giovani che giocavano e i vecchi che si abbandonavano ai ricordi. Ho avuto due insegnanti che mi hanno cambiato la vita: uno che mi ha fatto amare per sempre la storia, l’altro che mi ha preparato per andare a Cambridge. E sono stato un adolescente romantico: passeggiavo avanti e indietro sotto le finestre delle bellezze locali nella speranza che mi vedessero e corressero fuori a salutarmi, senza mai rendermi conto che probabilmente mi avevano visto e se ne stavano nascoste in attesa che me ne andassi.

Il vantaggio di scrivere degli anni cinquanta e sessanta è che i pochi adulti sgradevoli che ho conosciuto sono ormai morti da tempo e quindi non possono farmi causa. Inoltre ero troppo giovane per fare o capire cose davvero brutte. Quello è successo dopo, quando sono diventato giornalista. E ora sto lottando con la mia coscienza per decidere fino a che punto potrò essere indiscreto a Ferrara.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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