Immaginate, se potete, una politica estera statunitense fondata solo sugli interessi. Tanto per cominciare bisognerebbe concentrarsi sull’America Latina e non farsi più ossessionare dal Medio Oriente. Le crisi che covano in America Latina sono per Washington una minaccia potenzialmente più grave di Al Qaeda. Forse il Messico non rischia di diventare un narcostato, ma alcune sue regioni sì, e si trovano lungo il confine con gli Stati Uniti. Hugo Chávez non abita in una caverna del Waziristan né si nasconde nelle bidonville di Karachi.

La fine imminente della dittatura castrista rischia di spingere un milione di cubani verso Miami. E infine: chiunque succederà al presidente Lula, i rapporti con il Brasile dovranno diventare una priorità per Washington, mentre oggi non lo sono, e questo spiega perché l’amministrazione Obama sia rimasta così sorpresa dall’iniziativa turco-brasiliana sul nucleare iraniano. Il Brasile vuole diventare una grande potenza e oggi ha anche il peso economico per realizzare le sue ambizioni.

Al tempo stesso non è affatto sicuro che il Medio Oriente sia così importante per gli interessi degli Stati Uniti come si pensa quasi unanimemente a Washington. Probabilmente in Africa occidentale e nelle sabbie bituminose dell’Alberta canadese c’è abbastanza greggio per i prossimi decenni. E in ogni caso i sauditi, gli iracheni, i kuwaitiani e gli iraniani devono pur vendere il loro petrolio a qualcuno. E quindi perché l’Egitto dovrebbe essere un problema degli Stati Uniti e non dell’Unione europea?

Dobbiamo davvero preoccuparci dell’eventualità che il regime di Mubarak sopravviva o che vadano al potere i Fratelli musulmani? Ma l’Egitto (è la risposta tipica di Washington) è fondamentale per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. E anche questo, in un’ottica strettamente realistica, ha poco senso. Perché Israele, che un tempo era un alleato fondamentale degli Stati Uniti, sul piano strategico oggi è diventato un peso.

Se le élite statunitensi non hanno ancora intenzione di liberarsi del petrolio, allora è molto più sensato e realista fare concorrenza ai cinesi lungo la costa occidentale dell’Africa, che andarsi a impantanare in Kuwait e in Arabia Saudita, provocando risentimenti inutili e pericolosi (vedi alla voce Bin Laden). Inoltre una parte delle energie oggi spese dal dipartimento di stato americano per promuovere i diritti umani in Cina dovrebbe essere usata invece per difendere i diritti dei lavoratori cinesi. Infatti solo migliorando radicalmente le condizioni di vita dei cinesi poveri si potrà porre rimedio alle distorsioni economiche nei rapporti tra Cina e Stati Uniti. E questo, dal punto di vista degli interessi statunitensi, è molto più importante del problema del Tibet.

Quelle che ho citato sono solo le conseguenze più ovvie di un ipotetico ripensamento della politica estera degli Stati Uniti all’insegna del realismo. Generalmente parlando, questo ripensamento dovrebbe ispirarsi al detto di lord Palmerston secondo cui le nazioni non hanno amici né alleati permanenti, ma soltanto interessi permanenti. Oggi questo significherebbe capovolgere il rapporto di forze tra geopolitica e geoeconomia, in modo da dare sempre il primato agli interessi economici degli Stati Uniti. Il risultato sarebbe inevitabilmente un taglio radicale alle centinaia di basi militari statunitensi in tutto il mondo.

Oggi la politica estera di Washington è un connubio di realismo ancora rudimentale e idealismo incoerente, quindi prende il peggio da entrambe le cose. Ma una politica realistica come quella che ho descritto ha le stesse probabilità di essere adottata che io di teletrasportarmi su Marte. E questo la dice lunga sulla tendenza dominante della politica estera americana. Il meglio che i realisti possono sperare di fare (anche quelli che, come me, hanno sposato il realismo molto tardi, dopo la guerra del Kosovo) è giocare alle Cassandre cercando di temperare l’idealismo e l’ambizione che domineranno la politica estera degli Stati Uniti nel prossimo futuro, fino a quando l’insolvenza di Washington metterà fine al primato statunitense nel mondo.

Tutti gli imperi finiscono, e non c’è da strapparsi i capelli. Perché a volte, quando finiscono gli imperi, le nazioni trovano un nuovo ruolo da svolgere: come fece la Francia quando De Gaulle, chiudendo un dibattito durato mezzo secolo, preferì l’integrazione europea a un impero africano. Chissà, forse gli Stati Uniti faranno altrettanto nelle Americhe: mi sembra un esito probabile, visto il rapido progresso della fusione culturale ed etnica tra le varie parti dell’emisfero occidentale. Ma tutto questo riguarda un futuro lontano.

Per ora continueremo a vivere sotto la bandiera logora dell’idealismo. Al massimo, credo, possiamo sperare di diventare più prudenti nel suo esercizio. Sì, le Cassandre hanno certamente un ruolo da svolgere, anche se – per restare nella metafora – siamo solo all’inizio, e non alla fine, della guerra di Troia che un giorno metterà fine all’epoca dell’egemonia statunitense.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 853, 2 luglio 2010*

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