Dimenticare l’11 settembre?
Questo articolo è stato pubblicato in occasione del decimo anniversario degli attentati dell’11 settembre ed è uscito il 2 settembre 2011 sul numero 913 di Internazionale.
Ci sono cose che bisogna distruggere e cose che è sufficiente illuminare e osservare. L’esame serio e benevolo, che forza! Non usiamo la fiamma là dove basta la luce.
Victor Hugo, I Miserabili
L’11 settembre 2011 verrà inaugurato a ground zero il monumento commemorativo ufficiale degli attentati che hanno distrutto le torri gemelle del World trade center. Progettato dall’architetto Michael Arad e dall’architetto pae-saggista Peter Walker, occuperà una superficie di 3,2 ettari. Il nome, Reflecting absence, fa riferimento alle vasche riflettenti che lo compongono, più basse rispetto al livello stradale e circondate ciascuna da un’enorme cascata. Secondo il sito del 9/11 Memorial saranno le più grandi cascate artificiali del Nordamerica. I nomi delle 2.982 persone rimaste uccise negli attentati dell’11 settembre 2001 e del 26 febbraio 1993 saranno incisi sui pannelli di bronzo che fiancheggiano le due vasche commemorative. Le parole conclusive della dichiarazione d’intenti del monumento sono: “Che le vite ricordate, le azioni riconosciute e lo spirito risvegliato possano essere fari eterni, che riaffermano il rispetto per la vita, rafforzano la nostra determinazione a difendere la libertà e ispirano la fine dell’odio, dell’ignoranza e dell’intolleranza”.
Sono sentimenti ineccepibili. Un monumento commemorativo è un luogo di solidarietà più che di ragionamenti, di omaggio deferente più che di senso critico, di pietà più che di revisionismo. Ma nell’affermare che la memoria è necessaria, non dobbiamo pretendere che sia completamente innocente o, per essere ancora più franchi, che non abbia un risvolto negativo sul piano morale. Ce l’ha, eccome.
Perciò, ogni volta che si fa una commemorazione, occorre domandarsi quale potrà essere il bilancio tra i costi della memoria e i suoi benefici. Perfino la conclusione della dichiarazione d’intenti, così simile a una preghiera, contiene più domande che risposte. Se non c’è nulla di moralmente problematico nel ricordare i caduti e nel rendere onore all’eroismo dei soccorritori, l’appello a “rafforzare la nostra determinazione a difendere la libertà” è tutt’altro che un innocuo articolo di fede. Sembra invece riecheggiare il discorso pronunciato da George W. Bush nella solenne seduta congiunta del congresso nove giorni dopo l’11 settembre. Bush sostenne che gli attentati erano avvenuti perché “i terroristi odiano le nostre libertà: la nostra libertà di culto, la nostra libertà di parola, la nostra libertà di votare e di riunirci e di dissentire gli uni dagli altri”.
Probabilmente anche chi accetta la spiegazione di Bush – tralasciando la possibilità che i jihadisti odiassero le azioni, più che lo stile di vita degli Stati Uniti – ammetterebbe che il presidente aveva fatto una dichiarazione politica.
Non distogliere lo sguardo
L’inaugurazione del monumento commemorativo dell’11 settembre ricorderà un evento che, almeno in qualche misura, si è impresso come un marchio a fuoco nella vita e nella coscienza della maggioranza degli americani. Ma questo non oscura un altro dato: il fantasma che aleggia su tutte le commemorazioni pubbliche è sempre quello della politica, e in particolare della solidarietà nazionale. Che si tratti degli australiani e dei neozelandesi che celebrano insieme la giornata del corpo di spedizione Anzac, rendendo omaggio ai loro caduti nella prima e nella seconda guerra mondiale, dei francesi che celebrano la presa della Bastiglia il 14 luglio, o del 4 luglio degli statunitensi, l’obiettivo di queste cerimonie è quello che intendeva Ernest Renan, il grande storico ottocentesco del nazionalismo francese, quando parlò di creare una “solidarietà su vasta scala”. Si tratta di riaffermare la nostra lealtà di gruppo, più che di ricostruire con esattezza gli eventi storici o di presentare un fatto in tutta la sua complessità morale e politica. È in questo spirito che si svolgeranno le cerimonie del decimo anniversario dell’11 settembre.
È importante non esagerare. Qualunque significato la storia attribuirà agli attentati dell’11 settembre è improbabile che queste commemorazioni danneggino la società statunitense. Probabilmente non ci sarà granché da imparare, o comunque non più di quanto s’impara dai tributi che si ascoltano ai funerali. Per i parenti e gli amici delle vittime la memoria rappresenterà un riconoscimento e un conforto, ma non segnerà certo quella chiusura definitiva dei conti che è una delle chimere più deleterie del nostro tempo.
La memoria non aiuta a far luce sulla verità in tutte le sue sfumature e ambiguità. Ed è assolutamente giusto che sia così. Il problema è che le commemorazioni da una parte alimentano illusioni su quanto possa risalire indietro la memoria degli esseri umani, dall’altra – e questo è un problema molto più serio – possono produrre gravi conseguenze politiche e storiche. Insomma: forse commemorare non significa solo portare il lutto, ma alimentare un’idea di giustizia o di vendetta anche quando è arrivato da tempo il momento di sotterrare l’ascia di guerra.
La cruda realtà è che sul lunghissimo periodo niente sarà ricordato: è una verità difficile da accettare, eppure va riconosciuta
Se si cerca su internet la frase “we will always remember 9/11” (ricorderemo sempre l’11 settembre), si ottengono 18,4 milioni di risultati. Se si modifica leggermente la ricerca in “we will never forget 9/11” (non dimenticheremo mai l’11 settembre), il numero sale a 27,5 milioni. Sono numeri impressionanti, ma non vanno presi troppo sul serio. Si dice che gli americani venerano il cambiamento e non sentono il peso vincolante della storia, personale o nazionale che sia. Eppure i giuramenti di fedeltà al ricordo dell’11 settembre pronunciati nelle commemorazioni degli anni passati sembrano indicare una cosa: siamo convinti che quello che oggi ci sembra importante continuerà a esserlo per i posteri, anche quando noi saremo ormai polvere. Le intenzioni che stanno dietro queste affermazioni sono certamente innocue, eppure comportano dei rischi, soprattutto in una società come la nostra, così incline a confondere desiderio con destino, aspirazione con realtà, presente con eternità. François de la Rochefoucauld, il grande moralista francese del seicento, scrisse che nessuno può fissare troppo a lungo il sole o la morte. Aveva ragione, ma forse chi è tanto incline a distogliere lo sguardo dalla transitorietà delle cose umane, farebbe bene a fissarle un po’ più a lungo.
La cruda realtà è che sul lunghissimo periodo niente sarà ricordato: è una verità difficile da accettare, eppure va riconosciuta. Questo non significa che nel decimo anniversario degli attentati dell’11 settembre chi partecipa alle commemorazioni dovrà rinunciare alla consolatoria illusione che ricorderemo per sempre le vittime. L’alternativa – dichiarare che prima o poi i nostri discendenti dimenticheranno l’11 settembre, così come noi abbiamo in gran parte dimenticato tanti eventi tragici del passato – sarebbe altrettanto insopportabile, sarebbe come conoscere con largo anticipo la data della propria morte.
Tutte le grandi tradizioni spirituali affermano che la nostra memoria è mortale più o meno quanto noi: che si tratti del concetto buddista della caducità della storia e della persona o delle parole agghiaccianti dell’Ecclesiaste: “Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito”. Lo stesso concetto si trova in Ozymandias, il poema di Shelley in cui un viaggiatore racconta di aver visto, semisepolta nel deserto, la statua ormai deteriorata di un grande sovrano del passato, sul cui piedistallo era incisa l’iscrizione: “Guardate alle mie opere, o voi Potenti, e disperate!”. Ma di quelle opere non rimane nient’altro che sabbia “nuda e sconfinata”.
Uomini e imperi
Credere che i nostri grandi leader, le nostre rivalità politiche e le nostre tragedie storiche saranno immuni dall’oblio definitivo non ha nulla a che fare con la realtà dell’esistenza umana. Ha a che fare con le nostre speranze e i nostri desideri, che in fatto di storia sono sempre delle pessime guide. La storia dimostra che anche le imprese più monumentali e le più grandi conquiste militari sono effimere. Quello che è interessante, semmai, è capire quali siano i limiti della nostra capacità di ricordare, di celebrare e di compiangere.
Nel giugno del 1940, chiamando a raccolta il suo popolo per combattere e vincere quella che lui stesso definì la battaglia d’Inghilterra, Winston Churchill disse: “Anche se l’impero britannico e il suo Commonwealth dureranno altri mille anni, gli uomini diranno ancora: ‘Quella fu la loro ora più bella’”.
Churchill, uno dei difensori più intransigenti dell’impero britannico, neppure nel punto culminante della sua retorica riusciva a immaginare che l’impero durasse più di un millennio. Fece una dichiarazione che aveva in sé il proprio limite temporale, a differenza delle promesse senza tempo dei grandi monoteismi del deserto, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. La vita degli imperi è limitata proprio come quella degli esseri umani. Le persone – e sono molte – che negli Stati Uniti continuano a ritenere che l’impero americano non farà la fine di quello romano, di quello moghul o di quello britannico, farebbero bene a imparare questa lezione. Come osservava lo storico rinascimentale Francesco Guicciardini, “tutte le città, tutti gli stati, tutti i regni sono mortali, però uno cittadino che si truova al fine della sua patria, non può tanto dolersi della disgrazia di quella e chiamarla mal fortunata, quanto della sua propria; perché alla patria è accaduto quello che a ogni modo aveva a accadere, ma disgrazia è stata di colui abattersi a nascere a quella età che aveva a essere tale infortunio”.
Ci sono tante cose che comprendiamo sul piano intellettuale ma sentiamo di dover vivere come se non le sapessimo. Ci saranno senz’altro valide ragioni per questo nostro voler vivere nell’illusione o volerci comportare – con tante scuse a Freud – come se quest’illusione avesse un futuro. Vivere con la consapevolezza che tutte le nazioni – e tutti i grandi eventi che ne segnano la storia – sono mortali tanto quanto gli individui sarebbe paralizzante. Davvero la verità non ha paura di niente, come dicono certi saggi buddisti? Forse. Ma esiste anche l’eccesso di verità. Il difficile è destreggiarsi tra la memoria perpetua e la sconfortante realtà dell’estinzione non solo dei singoli esseri umani, ma delle nostre tradizioni, di quello che ci è stato a cuore e ci è sembrato importante e degno di essere ricordato. Per capirlo non serve guardare al passato remoto: basta pensare a eventi storici molto più recenti.
George W. Bush ha definito l’11 settembre la Pearl Harbor del ventunesimo secolo, e per quanto sia difficile trovare analogie calzanti tra una guerra e un’altra, questa lo è. Prima dell’11 settembre, l’ultima volta che migliaia di americani erano stati uccisi sul suolo statunitense in un attacco di una forza straniera risaliva al bombardamento giapponese su Pearl Harbor. Roosevelt definì il 7 dicembre 1941 “una data simbolo dell’infamia”. Affermarlo, a quel tempo, era perfettamente ragionevole, come oggi è perfettamente ammissibile proclamare che l’11 settembre vivrà per sempre nel nostro ricordo. Ma attenzione alle sfumature. Anche nell’esasperazione del momento, Roosevelt ebbe il buonsenso di non dire che quel giorno sarebbe stato ricordato per sempre come un’ignominia: la sapeva troppo lunga. Preferì parlare del qui e ora.
Riconciliazione
Non c’è dubbio che il 7 dicembre 1951, dieci anni dopo Pearl Harbor, la maggioranza degli americani continuasse a ricordare quella data come un’infamia, così come oggi l’11 settembre. Ma ciò che è stato del ricordo di Pearl Harbor ci aiuta a capire quanto possa essere effimera la “memoria imperitura” di traumi storici anche recenti. Qualunque cittadino statunitense che oggi visiti il monumento commemorativo di Pearl Harbor e abbia un minimo di sensibilità ne sarà profondamente commosso e forse, oltre al dolore, proverà addirittura rabbia. Ma quanti statunitensi ricordano davvero i 1.177 marinai morti quel giorno sulla corazzata Arizona, le cui spoglie riposano proprio sotto quel monumento? Per giunta, tra non molto quelli che hanno vissuto in prima persona l’attacco, o erano abbastanza adulti da esserne a conoscenza, ci avranno lasciati. Quello che rimarrà, allora, non è il ricordo ma la commemorazione, che può essere tante cose, positive e negative ma resta sempre una manifestazione politica.
E che dire dell’espressione “vivrà nell’ignominia”? Negli anni cinquanta, molti statunitensi non compravano auto tedesche e la loro antipatia nei confronti dei giapponesi era palpabile. Si potrebbe quasi dire che la riconciliazione con la Germania è avvenuta perché i tedeschi hanno ammesso le loro colpe e hanno creato uno stato il cui obiettivo era essenzialmente diventare l’antitesi della Germania nazista. Un simile processo di riconciliazione seguita dall’oblio si è avuto con il Giappone, anche se dopo la seconda guerra mondiale quel paese non ha compiuto nessun gesto di pentimento. Anzi, il fatto che i giapponesi per lo più rifiutino di ammettere i crimini commessi durante la guerra fa ancora indignare i coreani e i cinesi che di quei crimini furono le principali vittime. Eppure ogni 7 dicembre quasi nessuno, negli Stati Uniti, pensa con rabbia ai giapponesi. Certo, qualcuno continua a commemorare Pearl Harbor, ma rispetto a quell’evento siamo andati non solo oltre il ricordo, ma anche oltre ogni memoria minimamente viva. V’immaginate un cittadino statunitense che in nome di Pearl Harbor neghi il suo aiuto al Giappone colpito dal terremoto e dallo tsunami? Oggi è inconcepibile, ma il 7 dicembre 1951 non lo sarebbe stato. Insomma, quella guerra è finita, non solo nei fatti, ma anche nel cuore delle persone. Tutte le guerre finiscono, e la lunga guerra contro i jihadisti non farà eccezione.
Ferite aperte
Con questa consapevolezza potremo finalmente smettere di rimandare la risposta a questa domanda: a che serve davvero una memoria collettiva come quella che s’invocherà nelle commemorazioni dell’11 settembre, e quali sono i suoi rischi? Per rispondere dovremo prendere in considerazione un’ipotesi moralmente o psicologicamente sgradevole, e cioè che in certi momenti e in determinati contesti, dimenticare potrebbe essere preferibile a ricordare. Oggi quest’idea non riscuote consensi da nessuna parte: né tra le destre nazionaliste, né tra le sinistre che invocano il rispetto dei diritti umani. La maggioranza delle persone perbene è favorevole al perdono, ma è molto improbabile che qualcuno spenda una parola in difesa dell’oblio.
Forse siamo tutti troppo influenzati dal monito di George Santayana, secondo cui “chi non sa ricordare il passato è condannato a riviverlo”. Ma questo detto ignora completamente il fatto che la storia, come i comportamenti psicologici dei singoli, è governata almeno in parte da ciò che Freud definì la catena inconscia della ripetizione. Forse diamo per scontata la superiorità etica della memoria sull’oblio perché ci hanno detto e ripetuto che ricordare significa essere responsabili, mentre dimenticare non è solo irresponsabile, ma è indizio della caduta in una specie di codardia morale o di nichilismo civile. Dopotutto, anche Gesù invitava i suoi seguaci a perdonare chi li aveva offesi, ma non a dimenticare del tutto l’affronto.
Non si può fingere di non sapere che l’oblio è stato l’asso nella manica di alcuni tra i personaggi più foschi della storia. Hitler domandò retoricamente quanti nel 1939 ricordassero il genocidio degli armeni commesso dai turchi per dimostrare che i nazisti potevano fare qualsiasi cosa senza rischiare niente. Ma la memoria non è solo consolatoria: può anche essere incendiaria. Io che sono stato in Bosnia durante la guerra – una guerra largamente alimentata dalla memoria, o più precisamente dall’incapacità di dimenticare – ho imparato a odiare, ma soprattutto a temere, la memoria storica collettiva. La memoria può far apparire la storia stessa addirittura come un arsenale pieno delle armi che servono per alimentare le guerre e indebolire la pace. La memoria dell’11 settembre avrà questo effetto considerando che la pace è un’eventualità remota?
È ancora troppo presto per dirlo. Come hanno dimostrato il sollievo e le manifestazioni di esultanza scoppiate spontaneamente in tante parti degli Stati Uniti all’annuncio dell’uccisione di Osama bin Laden, le ferite sono ancora aperte. Almeno per ora non si può neanche pensare a dimenticare, né a perdonare. Tuttavia, se è ancora troppo presto per andare oltre, non è troppo presto per chiedersi se si potrà mai raggiungere la pace senza prendere in considerazione anche la guerra. Perfino l’elaborazione del lutto, per quanto indispensabile, deve terminare, se si vuole che la vita continui.
È una tesi che può apparire controintui-tiva, e nessuna persona ragionevole si aspetta che i familiari delle vittime dell’11 settembre dimentichino. Forse è perfino troppo chiedegli di perdonare. Ma prima o poi all’oblio si dovrà arrivare. E no, il perdono non basta. La maggior parte delle guerre non finisce con uno dei contendenti che trionfa e detta le condizioni della resa dell’avversario.
Dopo la resa della Germania, gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica hanno potuto scrivere i libri di testo usati nelle scuole tedesche. In Sudafrica la lettura della storia del paese fornita dall’African national congress ha potuto affermarsi come versione ufficiale. Ma prendiamo l’Irlanda del Nord o l’ex Jugoslavia. In entrambi i paesi, quelli che si sono affrontati con le armi in pugno restano convinti di aver avuto ragione. E se hanno rispettato la pace, non è perché si sono perdonati, ma perché quasi tutti hanno deciso di voltare pagina. La lunga guerra contro i jihadisti si concluderà quasi sicuramente in modo altrettanto ambiguo, con un infelice compromesso che negherà una vittoria definitiva agli uni e agli altri. Per i taliban non ci sarà una resa come quella dei giapponesi nella baia di Tokyo né un processo di Norimberga. Non ci sarà nessuna commissione per la verità e la riconciliazione dinanzi alla quale il mullah Omar, o Ayman al Zawahiri, o chiunque altro possa confessare i suoi crimini in cambio dell’amnistia. Insomma, una resa dei conti definitiva non ci sarà, e prima o poi dovremo semplicemente imparare a convivere con questo fatto.
La lezione di una scrittrice
Nel frattempo, faremmo bene a considerare la possibilità che, se le nostre società dovessero investire nel dimenticare anche solo una frazione dell’energia che spendiamo attualmente per ricordare – e se la scelta di dimenticare si potesse considerare almeno altrettanto percorribile del dovere di ricordare – allora la pace, che tanto un giorno dovrà venire, potrebbe arrivare un po’ prima.
È una conclusione indigesta. La grande scrittrice sudafricana Nadine Gordimer ha detto che secondo lei gli scrittori dovrebbero scrivere come se fossero già morti. Chiedere a qualcuno di rinunciare alla memoria, o almeno di prendere in considerazione questa possibilità, significa chiedergli di comportarsi come se fosse già morto. Potremo mai rinunciare alla memoria delle nostre ferite?
Faremmo bene a sperarlo, per il bene di tutti noi. E dopo la fine delle cerimonie commemorative, sarebbe un buon momento per cominciare a farlo.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è stato pubblicato il 2 settembre 2011 sul numero 913 di Internazionale.