La tv araba prova a fare satira sullo Stato islamico
Il selfie è la quintessenza estetica dei nostri tempi: un’istantanea veloce, che viaggia virale sui social network, dove la presenza del fotografo non è nascosta ma esposta, esibita, raccontata. Se il selfie è la forma di autoritratto che fa incontrare l’individuale e il collettivo, il personale e il condiviso, allora non c’era titolo migliore di Selfie per la curiosa serie tv che passa in questi giorni sugli schermi arabi.
La sigla di Selfie ci introduce in un mondo fatto di schermi: da quelli enormi formato cinema e home theatre, a quelli piccoli posizionati sulle poltrone degli aerei, a quelli onnipresenti dello smartphone. Il ritmo pop della colonna sonora costruisce un’atmosfera familiare e rassicurante. Appare il nome di Nasser al Qasabi, autore della serie, che per i telespettatori arabi è sinonimo di commedia e divertimento. Sua è la serie satirica televisiva Tash ma tash, andata in onda per oltre un decennio su Mbc – la rete d’intrattenimento più popolare nel mondo arabo, del gruppo saudita di cui fa parte Al Arabiya , la stessa che durante questo Ramadan trasmette le puntate di Selfie, una per ogni giorno del mese del digiuno islamico.
Tash ma tash è uno dei programmi televisivi di sketch satirici più noti nel mondo arabo, che negli anni ha toccato argomenti spinosi come i rapporti tra cristiani e musulmani nel Golfo, la questione femminile, l’estremismo religioso. Perciò mi aspetto di varcare la soglia di un territorio televisivo familiare, rassicurante, forse un po’ kitsch per i gusti occidentali, con una recitazione sopra le righe e i movimenti degli attori esagerati al punto che non si riesce a prenderli sul serio anche quando parlano di cose importanti.
Invece dopo la sigla colorata e pop di Selfie compaiono altre immagini familiari, tutt’altro che rassicuranti.
Ci sono le bandiere nere del gruppo Stato islamico. Ci sono i barbuti con i coltelli. Ci sono le odiose tute arancioni che si stagliano contro il nero degli aguzzini – orange is the new black.
Il volto familiare di Nasser al Qasabi compare in un’automobile, a una frontiera, senz’ombra di dubbio quella siriana. È determinato a entrare nel territorio dell’autoproclamato “stato islamico” per cercare il figlio, fuggito dalla nativa Arabia Saudita per unirsi al jihad internazionale. Il povero siriano che lo accompagna alla “frontiera” tra Siria e territorio dei neri gli dà indicazioni per arrivare alla “piazza dell’esecuzione degli ipocriti” dove si riuniscono tutti i mujahiddin. Al Qasabi ripete più volte: “Piazza che?”. La sua domanda ripetuta dovrebbe avere un effetto comico, invece già si indovina un tono diverso, velato di amarezza.
L’incredulità prosegue nella scena successiva, quando Al Qasabi, arrivato alla piazza del paese nero, chiede del figlio, che intanto è impegnato con l‘“emiro” del fantomatico califfato a prendere lezioni di jihad. Il padre a stento lo riconosce, la barba lunga e incolta, gli occhi spiritati e assetati di vendetta. Eppure lo abbraccia, l’amore è più forte del dolore, anche se gli sfugge uno spontaneo: “Ma che ci fai tu qua, figlio mio, con questi terroristi?”. “Ma cosa dici padre mio”, ribatte lui, “non usare mai più quel termine”. E gli racconta quanto è bello morire per il jihad: “Questo è il nostro destino, noi siamo mujahiddin”.
Poi comincia la farsa, quella che dovrebbe far ridere, ma che assume nel corso della puntata un tono sempre più lugubre.
Il padre, che si finge anche lui innamorato del martirio per poter stare vicino al figlio e provare a salvarlo, comincia a esercitarsi in azioni di guerra e a imparare una religione usata come scusa per uccidere. Riceve in dono una moglie, bellissima, siriana, che lui prova a rifiutare, dicendo al figlio che in fondo ama ancora sua madre. Ma la legge del mujahiddin impone la presenza di una sposa per soddisfare le voglie dei guerrieri dopo la battaglia, e Al Qasabi è costretto a prendersela: anche se durante la prima notte di nozze lo scoppio di granate in lontananza gli offre la scusa per non consumare il matrimonio. La scena di questa donna siriana che si toglie il vestito nero e si offre al mujahiddin sul letto nuziale non è facile da digerire (e nemmeno da mettere in scena, per una produzione saudita).
La discesa del personaggio di Al Qasabi negli inferi del mondo dei neri è sempre più profonda, e la commedia non riesce a fare breccia nell’orrore.
L’autore saudita prova a scherzare, ma non convince, perché è lui il primo a non riuscire a sorridere. Il suo volto sugli schermi panarabi non è mai stato così malinconico. Lo indovina uno dei mujahiddin che inaspettatamente gli fa una confessione: “Sono stato un cretino, mi sono arruolato, ma adesso non posso più tornare indietro. Sono ricercato in Arabia Saudita, non ho più un paese”, dice.
Il padre Al Qasabi continua a proporre la farsa ma con sempre meno successo. Durante l’assalto a un villaggio siriano salva i civili da sicura morte. E quando compare una fila di donne incatenate, le future schiave del sesso trofeo di guerra dei combattenti, prova a ribattere: “Ma sono solo delle bambine, lasciatele stare”.
I mujahiddin, insospettiti dallo strano comportamento gli chiedono di stracciare il passaporto saudita e rinnegare tutto davanti a una telecamera, tutto rigorosamente filmato e messo in rete.
Ormai la farsa è svelata, complice anche la moglie siriana mai impalmata che spia le conversazioni del padre con il figlio, e quella in extremis in cui il genitore tenta di convincere il ragazzo a mollare il jihad. La scena successiva sembra dargli ragione, e vediamo i due allontanarsi in auto dall’emirato della morte. Ma il tono malinconico dell’episodio persiste, e poco dopo capiamo il perché. “Padre, l’auto è imbottita di esplosivo. Andiamo in direzione del paradiso, dove ci aspettano le nostre vergini!”. Con un gesto disperato Al Qasabi riesce a strappare il figlio dal volante e a tirarlo fuori dall’automobile che, dopo qualche secondo, salta in aria.
Ma non è un lieto fine. C’è ancora una scena: quella fin troppo familiare delle tute arancioni a capo chino, con il boia in nero che si prepara a tagliare la gola. Solo che stavolta è il figlio che ammazzerà il padre, gli occhi di lui increduli, oltre la tristezza, oltre l’umana disperazione. Davvero una scena così non può far ridere.
Questo Selfie di Ramadan è l’autoritratto di un mondo arabo attonito, annichilito, come il padre del film. Un mondo arabo che non riesce a credere di aver creato qualcosa che uccide ogni forma di vita possibile, compresa quella stessa che lo ha generato. Un selfie spietato, raccapricciante, dove la mano del fotografo rimane come sospesa a mezz’aria, gli occhi tormentati da un’unica domanda, da padre a figlio: “Perché?”.