Elvis è una biografia sgargiante ma terribilmente asettica
Il nuovo film di Baz Luhrmann, Elvis, è una sgargiante, folle e istericamente melodrammatica stravaganza cinematografica, tipica dello stile dello sceneggiatore-regista-produttore australiano, già autore di costose opere commerciali come Il grande Gatsby, Australia e Moulin Rouge. Al momento Elvis sta andando piuttosto bene al botteghino statunitense, dopo i successi di Top gun: Maverick e Jurassic world: il dominio, per la gioia di Hollywood dopo un paio d’anni difficili. Il film sta inoltre attirando spettatori più anziani, quelli spesso ignorati dall’industria cinematografica statunitense, con numeri sorprendenti: il 56 per cento del pubblico ha più di 35 anni e addirittura il 29 per cento più di 55 anni.
I numeri smentiscono l’idea che il film biografico di Luhrmann sia stato concepito principalmente per attirare le generazioni più giovani, dandogli la possibilità di conoscere meglio il leggendario artista, in un’epoca in cui la fama di Presley non è più scontata e onnipresente. Nella disamina di History vs Hollywood si legge: “Billy Stallings, un esperto di storia di Elvis, ha sottolineato che il film non è per i puristi del cantante. È più un modo per far conoscere il re del rock and roll al pubblico più giovane e a chi non ha familiarità con Elvis. È uno sguardo sopra le righe, esagerato, sulla vita di Elvis, nel quale si accumulano, uno sull’altro, momenti grandiosi. La sua stravaganza cattura l’attenzione, ma a discapito della fedeltà alla vera storia di Presley”.
Questa teoria spiega l’entusiastica collaborazione della famiglia Presley, in particolare dell’ex moglie di Elvis, Priscilla, esecutrice del patrimonio dell’ex marito e cofondatrice ed ex presidente della Elvis Presley enterprises, l’azienda che ha trasformato la villa dei Presley a Memphis, Graceland, in un’attrazione turistica altamente redditizia. Vale la pena ricordare che qualcuno deve pur continuare a far affluire i dollari dei turisti di Graceland, oltre a tutti gli altri ricavi legati all’acquisto della musica di Elvis e alla vendita dei vari articoli legati alla sua immagine.
Duplice fascino
All’inizio di maggio, più di un mese prima della sua uscita ufficiale, Priscilla Presley ha partecipato al Met Gala per promuovere il film, alternativamente al braccio di Baz Luhrmann e di Austin Butler, il giovane attore che sta ricevendo straordinari apprezzamenti per il ruolo di protagonista in Elvis. Le sue reazioni entusiastiche al film, così come quelle della figlia di Elvis, Lisa Marie, e della nipote Riley Keogh, sono state ampiamente riportate.
“È stato molto emozionante, anche per mia figlia [Lisa Marie Presley]”, ha dichiarato Priscilla. “Perché ha impersonato Elvis in maniera perfetta, davvero perfetta. È incredibile quello che ha fatto questo ragazzo, Austin Butler. Ha passato due anni a studiare Elvis, e vederlo è stato uno shock. Lo stesso vale per alcune delle canzoni. Jerry Schilling [talent scout che ha lavorato con il vero Elvis] si è seduto accanto a me, abbiamo fatto una proiezione privata, e io gli ho chiesto: ‘Ma è Elvis o Austin?’”.
Come accade spesso nei film biografici, anche il fascino di Elvis consiste in due cose: la capacità dell’attore principale di interpretare il soggetto nella maniera in cui la cultura del momento preferisce vederlo, e la capacità di trasformare in modo drammatico ma convenzionale la sua complicata vicenda biografica – spesso selvaggia e inquietante – in una narrazione diretta che trasmetta un’idea, troppo spesso semplicistica e moralistica, di chi fosse realmente la star.
Prendiamo, per esempio, l’idea di fondo su Elvis Presley del biopic televisivo Elvis, il re del rock di John Carpenter del 1979. Il film di Carpenter è caratterizzato da un’interpretazione straordinariamente convincente di un giovane Kurt Russell (alla sua prima collaborazione con Carpenter) che colse di sorpresa i critici. La narrazione è memorabilmente incorniciata da scene in cui Elvis è da solo nella sua stanza d’albergo di Las Vegas, nel suo ultimo anno di vita, vestito tutto di nero e con sgargianti occhiali da sole dalla montatura dorata, in una stanza buia, che parla con la sua ombra proiettata sulla parete accanto a lui, come se fosse il suo gemello Jesse, morto neonato. L’Elvis di Carpenter è un uomo strano: un solitario, ombroso, sempre in lotta con le forze sociali che incombono su di lui e in preda al caos interiore.
Nella versione di Luhrmann, Elvis è un angelo un po’ profano dal cristallino talento naturale, una sorta di prescelto musicale, guru delle ricche tradizioni della musica nera. Elvis bambino le ha conosciute nel juke joint dove si svagano i neri, spiando danze dalla forte carica erotica (accompagnate da That’s all right, Mama di Arthur Crudup Jr), e nella chiesa nera di fronte al locale, animata da esuberanti canti gospel, e dove Elvis viene estaticamente “salvato” dalla musica. Il film non menziona in alcun modo l’analoga passione di Elvis per la musica hillbilly bianca e per altri filoni nascenti della canzone statunitense.
La trappola del colonnello
Il demone che si contrappone all’angelico Elvis è il colonnello Tom Parker, interpretato da Tom Hanks, un vecchio e grottesco giostraio dai modi così inquietanti e predatori da sembrare il mostro di un film dell’orrore dell’epoca del muto. Hanks ha in dotazione un abito unto, un naso finto e pendulo, e un accento ridicolo che lo identifica come esplicitamente e negativamente straniero. L’esatto contrario di quel che riuscì a fare il vero colonnello Tom Parker – Andreas Cornelis van Kuijk, nato in Olanda – che visse illegalmente negli Stati Uniti, spacciandosi per decenni per statunitense di nascita e sudista.
Sarebbe stato molto più interessante se Hanks avesse interpretato il “colonnello” senza trucco, al massimo leggermente ingrassato e nulla più, parlando con una voce normale, sovvertendo così il suo stesso personaggio – quello dello stucchevole attore dal cuore d’oro. Quanto sarebbe stato più convincente se avesse usato la patentata e autoironica risata alla Tom Hanks, facendosi chiamare “l’uomo delle nevi” come faceva il colonnello, affascinando le persone, e non nascondendo le sue attività truffaldine al servizio del suo unico cliente, Elvis. E, quando necessario, tirando fuori tutto il sentimentalismo possibile pur di mantenere Elvis sotto il suo controllo con dialoghi alla Luhrmann tipo: “Siamo uguali, io e te, due bambini strani e solitari che si protendono verso l’eternità”. Salvo poi rivelare all’improvviso lo squalo dagli occhi di ghiaccio nascosto dietro ai sorrisi da truffatore, con minacce di azioni legali che avrebbero costretto Elvis, che non se lo poteva permettere, a pagare milioni di penali. Hanks sarebbe stato perfetto per questo ruolo. Ma non sarebbe stato un personaggio di Baz Luhrmann.
A ogni modo il colonnello si attacca a Elvis Presley, ritenendo che possa diventare il “più grande carnevale di tutti i tempi”. Da quel momento il confronto tra i due viene messo ripetutamente in scena con ambientazioni e registri diversi. Elvis cerca di essere fedele al suo talento divino e a se stesso, di essere “il vero Elvis Presley”, mentre il colonnello Tom Parker continua a intrappolarlo in esibizioni commerciali sempre più opprimenti, artificiose e avvilenti, che soddisfano razzisti, censori e piazze, e fanno girare i soldi.
Una volta delineata questa battaglia melodrammatica tra luce e tenebre, per Luhrmann nessuno scenario è troppo assurdo. Elvis è descritto come un musicista così brillante da continuare a trovare modi per aggirare l’implacabile e pacchiana spinta commerciale di Parker, come quando si esibisce con il bigger sound escogitato per salvare il suo primo concerto a Las Vegas. Poi lo vediamo improvvisare un complesso arrangiamento di una delle sue canzoni dell’era di Las Vegas, dalla complessa orchestrazione e simili a un inno. È una di quelle scene già viste molte volte, in cui il genio musicale improvvisa impartendo istruzioni agli ottoni – “e ora fate wah-wah-wah”– e ai percussionisti – “ora fate dappity dappity dap”– e così via, finché tutto il meraviglioso arrangiamento prende forma in appena cinque minuti, come per magia.
E l’imbarazzante tendenza del film a fare di Elvis una specie di amico degli ideali liberal della comunità nera? Accidenti!
E così Elvis conserva il suo autentico genio anche quando adotta le tute con i lustrini e “cade nella trappola” tesa dal Colonnello. “We’re caught in a trap, I can’t walk out” (Siamo caduti in una trappola, non riesco a uscirne) è l’incipit di uno degli ultimi e maggiori successi di Elvis, Suspicious minds. Il brano risuona ripetutamente, con il significato più letterale possibile, nel terzo atto del film, dedicato agli anni di Elvis a Las Vegas, quando Parker firmò accordi che resero il cantante sempre più disperato, tossicodipendente e comprensibilmente paranoico, bloccato all’International hotel dove viveva e si esibiva.
Eventi e aspetti ben noti e fondamentali della vita di Elvis sono cancellati o ignorati se non puntellano l’idea della melodrammatica opposizione tra i due personaggi centrali. Parker era ben consapevole che la potente sessualità di Elvis era una delle ragioni della sua popolarità, e non aveva intenzione di spegnerla, ma solo di incanalarla in modi diversi.
Ma nel film lo vediamo sempre costringere Elvis in una sorta di camicia di forza asessuata e asettica. La lunga e ridicola sequenza in cui Parker supervisiona una gigantesca produzione televisiva di uno speciale natalizio di Elvis, salvo poi ordinare a Elvis di far girare le telecamere all’ultimo secondo, lontano dall’elaborato set di felicità natalizia con tanto di attori vestiti da elfi, affinché lo inquadrino mentre si esibisce in un intenso assolo di If I can dream in onore di Robert F.Kennedy, appena assassinato, mi perseguiterà per mesi. Quanto stupido può essere il pubblico secondo Luhrmann? Chi può credere che una tale assurdità sia possibile nel mondo delle produzioni televisive ipercostose e ad alta intensità di lavoro e attrezzature?
Incarnazione dello showbiz
Luhrmann non cita la storica apparizione di Elvis all’Ed Sullivan show, la vetrina per eccellenza per i nuovi talenti negli anni cinquanta e sessanta, che lo trasformò in una star nazionale prima ancora che la puntata finisse. Sullivan era un irlandese-statunitense cattolico all’antica, e le consegne erano che Elvis potesse apparire nell’esibizione meno spinta della sua vita. E così cantò la ballata romantica Love me tender così apprezzata che i dischi andarono letteralmente a ruba e le ristampe non furono sufficienti. Fu una soluzione di comodo durante un breve momento negativo nella carriera di Elvis Presley, ma questo non rientra nell’argomentario cinematografico di Luhrmann.
E i “peccati” più famosi di Elvis sono ridicolmente ignorati in una descrizione del cantante sempre presentato come la vittima innocente del vero peccatore, il colonnello Tom Parker. La sua storia d’amore con la moglie Priscilla, cominciata quando lei aveva quattordici anni, diventa più rispettabile grazie alla scelta di un’attrice di 24 anni, Olivia DeJonge, che – anche con le treccine e un vestito da scolaretta – sembra una diciottenne. La vita sessuale di Elvis, notoriamente sfrenata, si riduce a un singolo caso di tradimento di Priscilla con una donna anonima, in una stanza d’albergo, e solo quando sta crollando, alla fine della sua vita. Il suo abuso di droghe si limita a qualche pillola e iniezione, mentre in realtà Elvis era notoriamente una farmacia ambulante, che viaggiava con valigie cariche di farmaci, ed era dipendente da un cocktail quotidiano di sostanze illegali terribilmente letali.
La parte più strana di queste scelte è che tutta la sensibilità registica di Luhrmann propenderebbe per una versione di Elvis scintillante, selvaggio, esagerato, da peccatore metà Hollywood e metà Las Vegas. Il film si apre con titoli di testa con paillettes e diamanti, che sembrano indicare che Luhrmann voglia farla finita con la vecchia dicotomia tra il “vero” Elvis e quello “falso” attraverso una celebrazione dell’Elvis uomo di spettacolo a tutto tondo: l’Elvis delle fiere di paese e delle canzoni in famiglia, dei carnevali dozzinali e dei cori gospel, degli honky-tonk di bassa lega e della televisione dal vivo sgranata, dei film e dei musical comicamente ridicoli, e delle doti da grande uomo di spettacolo a Las Vegas, come se tutte queste cose fossero in continuità. Elvis non era un angelo dal talento puro, era un’incarnazione elettrizzante dello showbiz statunitense, che riuniva in sé diversi filoni esaltanti e decadenti. Ma Luhrmann ha scelto di affidarsi a una narrazione semplicistica, e rimane fedele a essa.
E l’imbarazzante tendenza del film a fare di Elvis una specie di amico degli ideali liberal della comunità nera? Accidenti! È un palese tentativo di affrontare la controversa posizione di Elvis presentando come “empatico” il cantante di grande successo che ha tratto maggiormente profitto dal rendere accettabile al pubblico bianco la musica rhythm and blues e rock and roll delle origini. L’amico di BB King! Il frequentatore dei club neri di Beale street! L’uomo che rifiuta l’etichetta di “re del rock and roll” e dice che chi la meritava davvero era Fats Waller! Guarda com’è triste Elvis quando muore Martin Luther King!
Un’apologia semplicemente senza senso. Elvis è il cantante che con più successo è stato commercializzato come colui che poteva trasmettere “in maniera sicura” la musica nera al pubblico bianco, in un’epoca follemente razzista. Se non fosse stato lui, sarebbe stato qualcun altro. Ma la tendenza di Luhrmann è quella d’ignorare perlopiù il razzismo sistemico di cui Elvis ha beneficiato, anche se con riluttanza, e di celebrarlo come un artista che era anche amico personale dei neri. Le scene nei locali di Beale street mostrano Elvis intento ad ammirare intrattenitori come Willie Mae “Big Mama” Thornton (interpretata da Shonka Dukureh) mentre canta la sua storica versione di Hound dog. Ma nulla nel film sottolinea quanto poco Thornton abbia guadagnato con la canzone – sebbene sia stato il suo più grande successo, lei stessa ha dichiarato che le ha fruttato solo cinquecento dollari – rispetto allo sproposito di milioni che Elvis deve aver guadagnato con quella che è diventata la sua canzone rimasta più a lungo al numero uno delle classifiche.
Luhrmann non è molto interessato a questa realtà monetaria ed economica. Preferisce quel genere di cifre scritte teatralmente sui tovaglioli dal colonnello Tom Parker appoggiato ai tavolini di Las Vegas, e che nel film sono l’equivalente del Dottor Male che in Austin Powers chiede gongolante “un miiiiiiiiiillllione di dollari”.
Immagino di poter dire che sto alludendo sottilmente al fatto che sono piuttosto stufa dei film di Baz Luhrmann. Ma pare che io sia l’unica. Da quando è uscito, Elvis sembra arrivato al posto giusto e al momento giusto, e la cosa appare purtroppo legata ad altri grandi successi del momento Top gun: Maverick e Jurassic world: il dominio. Tutti spettacoli grandiosi, stupidi e nostalgici per persone che dichiarano con orgoglio quanto abbiano desiderato andare a vedere un film hollywoodiano da popcorn, che non li faccia pensare assolutamente a nulla.
Ma un conto è dichiararlo. È comprensibile. Un’altra cosa è esserne orgogliosi.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin Magazine.