Blonde è l’ennesimo svilimento di Marilyn Monroe
Prodotto da Netflix, Blonde si segnala tristemente per la sua durata, il divieto ai minori di 17 anni, e la sua visione crudelmente limitata di una Marilyn Monroe (Ana de Armas) messa in scena come una fragile creatura costantemente vittima di violenze e sfruttata dalla prima infanzia fino alla morte per overdose all’età di 36 anni.
Joyce Carole Oates, il cui omonimo romanzo del 2000 è servito da ispirazione per Blonde, ha detto che le è stato permesso di vedere vari montaggi provvisori del film, ma che alla fine ha dovuto smettere perché “il film è emotivamente devastante”. Ma fedele, secondo lei: “Oates sostiene che Blonde, che descrive con toni vividi aborti spontanei e non, e aggressioni sessuali, è ‘probabilmente più vicino a quel che Marilyn Monroe ha effettivamente vissuto’ rispetto ad altri film sull’attrice; ‘gli ultimi giorni della sua vita sono stati brutali… Le cose realmente accadute a Marilyn Monroe sono molto peggio di quanto si veda nel film’”.
Lo stile profondamente letterario e al contempo macabro di Oates, che ha reso il suo romanzo Blonde pieno d’interventi di fantasia così sgradevole alla lettura, è stato trasposto fedelmente in un’opera cinematografica dallo sceneggiatore e regista Andrew Dominik (già autore di Cogan - Killing Them Softly, e L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford).
Narrazione fittizia e speculativa
Dominik ha scelto di rappresentare Monroe come vittima di continui e orrendi abusi, con uno stile estetizzante che oscilla tra diverse proporzioni dell’immagine e tra pellicole a colori e in bianco e nero, ricreando in modo elaborato scene di film di Monroe, come Niagara (1953) e Gli uomini preferiscono le bionde (1953), o trasferendo digitalmente Armas nei panni di Monroe in scene esistenti di film come A qualcuno piace caldo (1959). Dominik ricrea alcune delle più famose fotografie di Monroe – per esempio quella in cui lei e Joe DiMaggio sono seduti insieme alla finestra in intima comunione – quasi che queste fossero i cardini della verità che permettono di dispiegare, tra una foto e l’altra, una narrazione fittizia e spudoratamente speculativa, come nel caso dei presunti pensieri di Monroe, a cui dà voce Armas.
Nelle interviste Dominik ha dichiarato la sua indifferenza per i fatti reali della vita di Monroe, sostenendo che il suo obiettivo è principalmente estetico: “Non mi interessa la realtà, mi interessano le immagini”. Inoltre, ha aggiunto, “nessuno sa davvero cosa sia successo. Quindi è comunque tutta finzione, secondo me”.
Ha poi ripetutamente sottolineato quanto in realtà il film sia fedele alla realtà storica: “Ho letto tutto quello che c’è da leggere su Marilyn Monroe. Ho incontrato persone che la conoscevano. Ho fatto un’enorme quantità di ricerche…”.
E ha infine concluso insistendo sul fatto di aver semplicemente adattato il libro di Joyce Carol Oates: “Ma alla fine si tratta del libro. E adattare il libro significa in realtà adattare le sensazioni che il libro mi ha dato. Considero il film, in un certo senso, come la visione di Marilyn offerta da Joyce, il che significa che il film parla anche di Joyce… Joyce sta cercando di capire come esprimere una certa esperienza femminile, o una certa esperienza umana. Bisogna giocare liberamente con la verità per ottenere una certa forza narrativa”.
La postura tremante è la caratteristica principale dell’interpretazione di Armas, che fa miracoli nel variare l’unica nota che le viene chiesto di suonare all’infinito
A prescindere da quel che Dominik pensa di stare facendo, il giudizio fondamentale che occorre esprimere su Blonde è che si tratta di un film straordinariamente insulso.
In una scena un feto nel grembo di Monroe rimprovera quest’ultima per aver abortito un figlio in precedenza. E lo fa – avete indovinato – parlando con voce da bambino. In un altro momento del film, abbiamo una visione in soggettiva della tazza del gabinetto, con Monroe che ci vomita ripetutamente addosso.
E per tutto il film ci viene chiesto di accettare l’idea che in qualche modo Marilyn Monroe, anche in una versione parzialmente di fantasia, possa essere stata la più grande star mondiale per ben dieci anni, ma odiando ogni minuto del suo tempo, non volendolo, non avendo mai fatto sforzi per affermarsi nel mondo del cinema, e facendo di tutto per sabotare la sua stessa celebrità dopo averla ottenuta.
Quando il leggendario giocatore di baseball in pensione Joe DiMaggio (Bobby Canavale), il secondo marito di Monroe, descritto nel film come un bruto ottuso, le chiede come sia diventata una stella, Monroe non riesce a pensare ad altro che al brutale stupro di cui è stata vittima nell’ufficio del dirigente di uno studio cinematografico, che avrebbe lanciato la sua carriera con un semplice atto di rozza violenza. Monroe, tremante, risponde: “Immagino di essere stata… scoperta?”.
Questa postura tremante è la caratteristica principale dell’interpretazione di Armas, che fa miracoli nel trovare variazioni dell’unica nota che le viene chiesto di suonare all’infinito. I suoi unici momenti felici – momenti di tremante felicità – sono quelli nei quali è incinta o è sposata per la prima volta con Arthur Miller (Adrien Brody), che nel film è presentato come debole e incapace di capire alcunché della donna che ha sposato.
Una storia ridicolizzata
Sembra, in questa versione, che Monroe abbia sempre e solo voluto essere semplicemente Norma Jean Baker, il nome poco affascinante con cui era nata. Avrebbe insomma desiderato solo essere la madre di un figlio suo e l’amata figlia di un padre sconosciuto che, a quanto si vede, continua per anni a scriverle, promettendo per tutto il film di comparire nella sua vita, ma alla fine senza mai farlo.
Ahimè, tutti i suoi sogni le furono negati!
È ridicolo ricavare una simile storia da quella che fu la lotta di Monroe per ottenere la celebrità, e che fu frutto di concentrazione e determinazione straordinarie da parte di una giovane donna che uscì da una triste infanzia all’epoca della grande depressione. Le ci vollero anni d’impegno incrollabile per diventare prima una modella popolare apparsa su innumerevoli copertine di riviste, quindi una comparsa nei film, poi un’attrice più nota e che interpretava ruoli piccoli, ma sempre più appariscenti, e infine una stella.
Durante la sua ascesa, le amare esperienze di povertà e impotenza le fecero sviluppare idee politiche di sinistra e sui conflitti di classe che nessuno a Hollywood prese sul serio. Fu derisa dai mezzi d’informazione quando fu vista leggere l’autobiografia del giornalista investigativo socialista Lincoln Steffens, e fu ammonita da uno studio cinematografico a non farsi più vedere in giro con libri radicali. Fu una sostenitrice dei diritti civili e della rivoluzione cubana di Fidel Castro, e “diventò un membro fondatore della sezione hollywoodiana del Committee for a sane nuclear policy”.
Sposò il drammaturgo Arthur Miller subito dopo che l’autore fu chiamato a testimoniare davanti alla commissione per le attività antiamericane (Huac) nel 1956, una testimonianza sollecitata anche perché la sua opera teatrale sui processi alle streghe di Salem, Il crogiuolo, era chiaramente un’allegoria della caccia alle streghe anticomunista negli Stati Uniti. L’immensa celebrità di Monroe e la sua abilità nel gestire i rapporti con i giornalisti salvarono probabilmente Miller dalle dure conseguenze del rifiuto di fare i nomi richiesti dall’Huac; conseguenze che colpirono altri scrittori come Dashiell Hammett, che scontò cinque mesi di prigione e ne uscì rovinato finanziariamente.
Frasi di circostanza
Ma Monroe era vulnerabile alle aspettative sessiste del suo tempo, e la più grande frottola che le star femminili della Hollywood degli anni cinquanta raccontavano ai giornali era che non volevano affatto essere delle star, ma solo delle mogli e delle madri soddisfatte che conducevano una vita domestica appagante, sottomesse a mariti che mantenevano la famiglia. Alcune probabilmente ci credevano davvero, perché l’ideologia antifemminista di quell’epoca aveva un’intensa forza di lavaggio del cervello. Doris Day, per esempio, sembra essersi sinceramente convinta di essere stata una grande star cinematografica e musicale per quindici anni senza averlo minimamente desiderato personalmente. Ma almeno alcune di loro dovevano sapere che si trattava semplicemente di frasi di circostanza, necessarie a mantenere buone pubbliche relazioni negli anni cinquanta.
Monroe espresse simili desideri di essere moglie e madre, manifestando al contempo le più titaniche ambizioni di carriera dai tempi di Joan Crawford. La storia meno nota ma molto più impressionante della vita di Monroe non è la sua misera e squallida infanzia in famiglie affidatarie dopo il ricovero in istituto della madre malata di mente. Non è neppure il modo crudele in cui fu sfruttata sessualmente dagli uomini dell’industria cinematografica, a proposito del quale fu sorprendentemente franca per tutta la sua vita. E non sono i suoi matrimoni e le sue relazioni con uomini famosi e potenti, che cominciarono con speranza e finirono in modo disastroso. È invece la storia della sorprendente volontà con cui Monroe volle realizzare cose straordinarie nella sua vita e diventare una personalità di spicco.
“Non mi interessa il denaro”, diceva. “Voglio solo essere meravigliosa”.
È questa Monroe ambiziosa a non ricevere abbastanza attenzione, mentre lo sgradevole gusto per una Monroe più umiliata genera infinite biografie in tutti i mezzi di comunicazione. Quella Monroe che nei suoi ultimi anni di vita versava in condizioni tragicamente difficili, così depressa da non fare il bagno per molti giorni, che si aggirava in un accappatoio sporco nella sua casa solitaria, che si nutriva di una dieta di champagne e barbiturici, incapace di dormire la notte, e che telefonava disperata e suicida nel cuore della notte ad amici sempre meno pazienti.
Qual è la posta in gioco?
Blonde, ovviamente, si sofferma molto su questa Monroe alla fine del film. Ma anche il modo in cui Monroe è ritratta nei suoi primi anni – quando in realtà era atletica, spiritosa, lavoratrice e, anche se talvolta timida, piuttosto socievole – riflette lo stato d’angoscia nevrastenica degli ultimi anni dell’attrice. Armas fa un lavoro impressionante nel mettere in scena questa versione morbosa di Monroe, anche se ciò comporta la ripetizione di scene simili fino alla monotonia. È significativo, per esempio, che in questa versione Monroe sia coinvolta in un “menage à trois” di fantasia con due figli problematici di stelle del cinema, che finiscono per tradirla: Charles “Cass” Chaplin Jr e Edward Robinson Jr. E dal film questa sembrerebbe essere l’unica relazione umana della sua vita.
In quel periodo, Monroe ebbe una breve relazione solo con Cass, ma condivise anche una stanza con la sua amica Shelley Winters, gioviale, gaudente e fortemente di sinistra, e a sua volta determinata a diventare una stella del cinema. Come racconta la Winters nella sua autobiografia Shelley also known as Shirley (Shelley nota anche come Shirley), le due si divertirono molto insieme, fecero festa, uscirono con molti uomini e divisero le spese per poter indossare a turno abiti eleganti che nessuna delle due si sarebbe potuta permettere da sola.
La Monroe di Dominik non ha amicizie femminili, perché questo complicherebbe la narrazione del film, che parla di una sua infinita persecuzione operata dagli uomini. Alla domanda sul perché nel film non ci siano Jane Russell o una qualsiasi altra amica che sia stata effettivamente di sostegno alla Monroe nei vari momenti della sua vita, Dominik risponde: “Be’, nel libro è così e credo che sia stato così nella realtà. Penso che Marilyn fosse una ragazza fatta per gli uomini. Non credo che fosse una donna che avesse molte amiche. Ma penso anche che fosse una donna che non aveva molti amici in generale. Alcuni pensano che abbiamo voluto rileggerla basandoci sulle preoccupazioni politiche di oggi. Ma era una persona straordinariamente autodistruttiva”.
Era anche una persona esuberantemente creativa e, nonostante le sue sofferenze, ha realizzato quasi tutto ciò che si era prefissata nella vita. C’è da chiedersi quale sia la posta in gioco, per Joyce Carol Oates e Andrew Dominik, nel vedere Monroe come una patetica vittima che non ha mai avuto un amico o un trionfo nella sua carriera. È rivelatore che in Blonde non siano ricreate scene dei film di cui Monroe era probabilmente più orgogliosa. Non appaiono le sue performance nelle deliziose e divertenti commedie screwball, come Come sposare un milionario (1953) e Gli uomini preferiscono le bionde, ma solo la famosa scena di quest’ultimo in cui canta Diamonds are a girl’s best friend. Una sequenza che, nel film di Dominik, Monroe osserva in mezzo al pubblico di un cinema, rabbrividendo per il suo numero da cacciatrice di dote sexy sullo schermo, mentre pensa “io non sono quella cosa lì”.
Rimane fuori anche Fermata d’autobus (1956), basato su una prestigiosa opera teatrale di William Inge. Il film rappresenta la Monroe al suo apice, e dimostra tutto ciò che aveva imparato studiando all’Actors Studio, e per il quale era stata cinicamente derisa. La sua interpretazione astuta e ricca di emozioni le valse recensioni eccellenti e stupite da parte di alcuni dei suoi critici più severi.
Quanto a Il principe e la ballerina (1957), si rivelò un’esperienza infelice, ma si trattava di un progetto di grande prestigio, realizzato dalla sua stessa casa di produzione, la Marilyn Monroe productions. In esso Monroe recitò al fianco di Laurence Olivier, l’attore più ammirato del teatro britannico, in qualità di regista e di interprete. Alla fine Olivier rimase fedele al suo stile classico e teatrale, e fu Monroe a rubargli la scena.
È un’esperienza cupa e mortificante vedere Oates e Dominik umiliare ancora una volta Marilyn Monroe in Blonde. E i due lo fanno con un gusto così malato, che viene da farsi alcune domande su di loro.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin Magazine.