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A Damasco batte il cuore del mondo

Un siriano si scatta una foto vicino a una bomba inesplosa, in un’area controllata dai ribelli a Duma, nella periferia di Damasco. (Mohammed Badra, Epa/Ansa)

Un tempo Damasco era conosciuta come il “cuore pulsante del panarabismo”, ed era un vero e proprio punto di riferimento per capire come si sarebbe evoluto il destino della regione. Al momento della sconfitta della guerra dei sei giorni nel 1967, quando la capitale siriana scoprì la propria coscienza politica, il partito Baath era già al potere e presto avrebbe consegnato il paese in mano agli Assad.

Da allora il battito di quel cuore ha cominciato ad affievolirsi e gli unici suoni che avremmo udito in seguito sarebbero stati slogan insensati, segno della crisi in cui era precipitato il mondo arabo. Damasco, che negli anni cinquanta era stata famosa per la sua vivacità politica, si sarebbe trasformata in un cuore affaticato e spento, il cui soprannome, convertito in vuota retorica, avrebbe suscitato soltanto sconforto e sarcasmo.

Un cuore senza panarabismo e un panarabismo senza cuore! Dopo un secondo colpo di stato nel 1970, gli ufficiali e gli agenti della sicurezza hanno definitivamente stretto Damasco nella morsa mortale della dittatura, il cui sanguinoso prezzo è stato pagato anche da palestinesi e libanesi. Gli ufficiali del regime hanno poi messo a frutto la loro esperienza nei massacri di Hama del 1982, riducendo la Siria a un cumulo di rovine e prigioni.

Ma questi massacri non sono stati altro che la prova generale di una strage epocale, con la quale il Baath ha coronato la propria storia nei due paesi dove era al governo: l’Iraq, dopo avere subito la razzia americana, è precipitato nella follia settaria e fondamentalista, mentre il destino della Siria è un chiaro monito indirizzato agli altri popoli affinché si sottomettano alle dittature.

Il sangue siriano è stato utilizzato per sottomettere la regione e privarla di qualsiasi struttura nazionale

Se pensiamo che ciò che accade oggi in Siria anticipa la sorte degli altri paesi arabi, lo slogan “Damasco, cuore dell’arabismo” torna ad avere senso. Un cuore che agonizza a un tavolo, quello di Ginevra, circondato da vigliacchi, lasciando presagire la fine di un governo arabo e la consegna del paese, sottratto alla sua gente, in mano a potenze straniere.

Il cuore del mondo arabo ha perso la sua indipendenza ed è diventato un campo di battaglia internazionale. Il sangue siriano, che ormai scorre da cinque lunghi anni, è stato utilizzato per sottomettere di nuovo la regione e privarla di qualsiasi struttura nazionale. E chi danza al ritmo dei bombardamenti russi assomiglia a chi faceva lo stesso durante quelli americani in Iraq. In Siria si sono riuniti i ladri di tutto il mondo per arrestare il battito del cuore arabo.

L’unico orizzonte visibile oltre questa distesa di omicidi è un eccesso di morte, distruzione e disumanità.

La Siria si è trasformata in uno scandalo globale, è il luogo dove si vogliono seppellire i valori umani e il mezzo con cui annientare l’intero mondo arabo.

La processione funebre di Ginevra

Tra i responsabili non c’è soltanto chi è impegnato nell’opera di distruzione, ovvero il regime e il suo alter ego (le milizie fondamentaliste del gruppo Stato islamico), l’Iran, gli stati del Golfo, la Turchia, il pigro Egitto, gli Stati Uniti e la Russia. Ci sono anche le élite politiche siriane, che non hanno saputo far fronte comune contro i loro avversari spingendo alla vittoria l’esplosione popolare siriana, con le sue nobili richieste di libertà, dignità e giustizia sociale.

A Ginevra il mondo ha celebrato i funerali della Siria in una processione capeggiata da un fantasma, il regime di Bashar al Assad, che pregusta la vittoria dopo aver venduto il paese in cambio di un potere fittizio. Circondato da ladri provenienti dai quattro angoli della terra, Assad vuole annunciare una soluzione che sarà solo il preludio di una guerra infinita.

Questa spudorata cerimonia funebre indica che il mondo arabo ha toccato il fondo, portando a compimento la sconfitta araba del giugno 1967, quando con uno slogan demenziale si diceva che Israele aveva fallito perché non era stata capace di rovesciare i regimi arabi.

Cade lo stato, ma non il regime. È questa la filosofia del fascismo baathista che ha portato alla distruzione totale in Siria e in Iraq, dove il regime è sì caduto, ma con un prezzo – e qui risiede la genialità della dittatura – che ha superato ogni limite.

Il funerale che si è svolto a Ginevra ci dice che è stata fatta terra bruciata, ma i popoli e la cultura di questa regione sono superiori alla distruzione e dobbiamo trovare un nuovo inizio per non estinguerci.

Con le siriane e i siriani moriamo anche noi, cacciati dalle nostre case, affamati, umiliati e minacciati dai bombardamenti

Questa è l’amara realtà, ma non possiamo permettere alle siriane e ai siriani, per quanto esasperati, di abbandonare il sogno che aveva riempito le strade con il grido della libertà.

Un grido che annuncia gli inizi all’epoca delle fini, il grido diffuso dalla voce di al Qashush, il cantante di Hama che la dittatura non è riuscita a far tacere nonostante l’abbia assassinato. Questo grido ci invita a rifondare tutto, partendo dalla difesa della sopravvivenza.

La morte circonda ogni cosa e la politica delle grandi potenze, con il suo scandaloso vuoto di valori, è la tomba della politica. Nel mondo arabo, invece, lo scandalo sono le dittature e il fatto che le rivoluzioni siano state ridotte in cenere da chi spadroneggia su quest’epoca tumultuosa. Tutto ciò converge contro un popolo la cui tragedia e il cui dolore sono diventati universali. Oggi in Siria i valori umani sono sottoposti alla loro prova più estrema, calpestati dai ladri di un regime globale ostaggio del capitalismo più selvaggio e da un regime arabo che rischia di disintegrarsi.

Siamo diventati tutti siriani. La coscienza non parla soltanto agli arabi, ma a tutti coloro che credono nella giustizia e nella libertà.

Insieme alle siriane e ai siriani, moriamo anche noi, cacciati dalle nostre case, abbandonati al freddo, affamati, umiliati e minacciati dai bombardamenti.

Siamo tutti calpestati dalla dittatura e dalla follia delle feroci milizie fondamentaliste.

Siamo tutti lì, in Siria, dunque qui. La nostra unica scelta è riaffermare i valori umani, ispirandoci al grido dei bambini di Deraa, la cui morte ha ucciso l’infanzia in questo mondo spietato.

(Traduzione di Giacomo Longhi)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Al Quds al Arabi.

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