“Fino a qui tutto bene”. All’indomani delle elezioni comunali e in particolare del voto di Parma, il vertice del Partito democratico sembra ispirarsi a questa frase del film di Mathieu Kassovitz L’odio, in cui un personaggio in caduta libera da un palazzo ripete che, finché non ha toccato terra, tutto va bene.
Il risultato della formazione di Pierluigi Bersani mostra in effetti che il Pd rimane l’unico grande partito capace ancora oggi di reggere nella tempesta di contestazione generale della politica che ha portato, tra l’altro, all’affermazione del Movimento cinque stelle. Però, partendo da questo dato, ci sono due fatti che dovrebbero preoccupare l’attuale segretario e che, al di là dell’aspetto puramente elettorale, dovrebbero condurre a un’analisi più approfondita che non riguarda solo la politica italiana.
Il primo dato è che la situazione ricorda il 1992, quando il Pci-Pds, ultimo grande partito politico sopravvissuto alla prima repubblica e alla valanga Mani pulite, pensava di sbancare alle elezioni del 1994. Inutile ricordare che finì con la prima vittoria di Silvio Berlusconi.
L’altro dato è che il Pd non esprime più il sindaco di alcune grandi città pur gestite dalla sinistra: per esempio Napoli, Palermo, Milano o Genova. Qui i primi cittadini sono figure di rottura o di protesta e sarebbe illusorio consolarsi ricordando la tenuta del Pd a Torino con Piero Fassino.
Ma soprattutto, al di là di questo quadro congiunturale, l’elemento essenziale che emerge è la volatilità dell’elettorato. È una tendenza che si rivela un po’ ovunque, ma che negli ultimi vent’anni in Italia è molto evidente, con la scomparsa dei partiti tradizionali e la cosiddetta morte dell’ideologia.
L’elettore è sempre più libero, mobile e a volte velleitario. L’elezione è diventata un mercato politico in cui s’incontrano un’offerta e una domanda. Il primo ad averlo capito è Silvio Berlusconi, che ha creato dal nulla un’offerta politica a una domanda preesistente. E quando questa domanda è mutata ha cambiato l’offerta, come un produttore televisivo cambia programmi per seguire i gusti del pubblico.
Basta guardare le differenze di proposte elettorali del Berlusconi versione 1994 (liberismo, libertarismo, attenzione al mondo laico) e quello delle elezioni seguenti (protezionismo, sicurezza, valori cristiani).
Alla stessa maniera, è sempre più difficile delineare un “voto cattolico” o un “voto operaio”. È da tempo che la classe proletaria non vota più sistematicamente a sinistra. Come in Italia, dove gli operai si sono negli ultimi anni riversati in gran parte verso la Lega nord, in Francia il Front national di Marine Le Pen è stato il partito più votato dagli operai. Al secondo turno solo un elettore su due dell’estrema destra ha scelto il candidato della destra Nicolas Sarkozy.
Il fenomeno di mobilità del voto è stato confermato a Parma, dove più dell’80 per cento delle preferenze ottenute al primo turno dai candidati della destra, al ballottaggio è passato al grillino. Questi elementi testimoniano che non basta più contare su un residua disciplina di voto. Ci sono ancora degli elettori di sinistra che non voteranno mai a destra e viceversa, ma non sono sufficienti per vincere un’elezione.
Bisogna presentarsi con un’offerta programmatica e un leader convincenti, con delle alleanze politiche credibili in modo da proporre una forma di contratto di legislatura con gli elettori che, se insoddisfatti, non avranno più remore a cambiare schieramento al voto successivo. Dopotutto è il principio fondamentale della democrazia.
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