Era stato senz’altro la grande novità della politica italiana degli ultimi due anni. Anche il successo strepitoso di Beppe Grillo nelle elezioni di febbraio sarebbe stato ridimensionato se lui fosse stato in corsa. Con la sua modernità di linguaggio, il suo dinamismo, la sua capacità di rottamare i vecchi schemi politici, Matteo Renzi ha incarnato, anche con i suoi limiti programmatici e alcuni eccessi mediatici, la speranza di una nuova narrazione per il paese. Se avesse vinto le primarie, l’immagine dell’Italia nel mondo e la percezione degli italiani del loro paese sarebbero radicalmente cambiate.
Dopo la lunga presenza ingombrante dell’ormai vecchio padrone della politica italiana Silvio Berlusconi, l’Italia avrebbe potuto mostrarsi con uno dei capi di governo più giovani dell’occidente, arrivato al potere solo grazie alla sua competenza e alla sua audacia. Sarebbe stato insomma un elogio del merito e della gioventù in un paese anziano e assuefatto alle raccomandazioni. La storia ha voluto che gli elettori del Pd strappassero il biglietto vincente della lotteria, preferendo, in un suicido democratico, l’usato che non si è rivelato per nulla sicuro.
Da allora Matteo Renzi fatica a ritrovare uno slancio, una “narrazione”, una strategia e subisce la concorrenza dell’attuale presidente del consiglio Enrico Letta, simile a lui per età, provenienza politica (ex-Dc) e capacità di dialogare con gli avversari. La sua strategia è diventata confusa, le sue scelte difficilmente leggibili. Con la sua abilità, riuscirà forse a uscire indenne del pantano del Partito democratico. Ma tra alleanze spericolate, giochi politicisti, dichiarazioni continue e apparizioni pubbliche a vanvera sembra intanto decaduto alla figura di un capo corrente che si autologora.
“Vogliono mandarmi in Europa (…) Cosi mi si tolgono di torno per un po’” si è lamentato (secondo quanto riferito
dal Corriere della Sera), sospettando che D’Alema and company vorrebbero candidarlo alle elezioni europee dell’anno prossimo. In sostanza, vede l’Ue come una punizione.
È in questa considerazione che Matteo Renzi mostra la debolezza della sua proposta politica che appare, di un colpo, molto vecchia. Che l’Europa sia percepita come un castigo e il parlamento di Strasburgo come una perdita di tempo e di prestigio dimostra un limite d’analisi più che curiosa per un leader nemmeno quarantenne.
Non solo la politica agricola, commerciale, di bilancio, monetaria, ambientale, di difesa del consumatore eccetera passa ormai per grande parte attraverso l’Europa ma il parlamento europeo sarà chiamato a svolgere un ruolo sempre più forte, comunque più importante dei singoli parlamenti nazionali. Ed è solo al livello europeo, con una nuova legittimità democratica e una profonda riforma delle politiche in atto, che si potranno risolvere le grande sfide del continente.
Dovrebbe essere la grande, fondamentale e quasi viscerale battaglia di una generazione nata, come Matteo Renzi, quasi vent’anni dopo il Trattato di Roma. Invece si continua a percepire il parlamento europeo, come faceva buona parte della generazione precedente che si voleva rottamare, come un parcheggio in attesa di altri incarichi nazionali o addirittura regionali, e lo si è visto quando la “giovane” Debora Serracchiani che ha disertato il suo seggio a Strasburgo per la poltrona di presidente del Friuli-Venezia Giulia.
Si mostra così di non vedere o di non credere, malgrado i grandi proclami retorici, in un grande progetto di avventura collettiva attorno all’Europa che è tuttavia l’unico modo per risolvere i problemi dei cittadini dei paesi membri. “Mi vogliono in Europa, lontano”, si lamenta Matteo Renzi, dimostrando di non percepire che, in realtà, è l’unico modo di stare sopra.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it