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La polizia di Bruxelles alla ricerca di due terroristi latitanti

Le forze dell’ordine hanno diffuso informazioni su un secondo sospettato nella metropolitana. Ancora in fuga uno dei terroristi che hanno colpito l’aeroporto di Zaventem. Oggi a Bruxelles è in programma un vertice straordinario sul terrorismo.

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Quattro modi per reagire al terrorismo dopo Bruxelles

La polizia belga pattuglia la stazione centrale dei treni a Bruxelles, il 24 marzo 2016. (Vincent Kessler, Reuters/Contrasto)

“Dobbiamo aspettarci altri attentati”: accanto alle condanne, ai gesti di solidarietà e alle promesse di rafforzare la sicurezza dopo i fatti di Bruxelles, vari responsabili politici e di polizia europei hanno avvertito che il futuro sarà segnato da altri attacchi e veri e propri atti di “guerra”. Ma la scia di attentati terroristici ci impone di ragionare su una reazione articolata, che prescinda dalle soluzioni demagogiche, impraticabili o retoriche. Si possono individuare quattro punti fermi:

Non escludere l’intervento militare

Nessun governo europeo ha la volontà politica e la forza militare per attaccare in modo frontale il gruppo Stato islamico (Is). Ancor meno, dispone di un asso nella manica per una soluzione politica successiva all’eventuale offensiva armata. Ma senza intervenire è impossibile contrastare il reclutamento e la formazione di nuove leve jihadiste. Molti dei terroristi che hanno agito in Europa erano stati in Iraq o in Siria nelle file dell’Is.

Non bisogna dunque respingere a priori l’idea di operazioni militari puntuali, limitate e assolutamente mirate contro i centri di addestramento, di finanziamento e di comando del gruppo. Malgrado le dimostrazioni ufficiali di compassione e di solidarietà dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, numerosi paesi dell’Unione europea sono restii a sostenere la Francia in questa strategia.

Alle radici del jihadismo

La radicalizzazione di giovani musulmani che vivono nelle città europee è stata da decenni alimentata, preparata e costruita attraverso il finanziamento del fondamentalismo islamico da parte dei paesi del Golfo. Il più noto giudice francese dell’antiterrorismo, Marc Trevidic, ricorda che “l’Arabia Saudita è uno dei vettori di propagazione del wahabismo che difende un islam radicale, ma è anche un alleato: gli vendiamo armi e compriamo il suo petrolio. Per motivi economici l’occidente ha intrecciato alleanze pericolose. Ora ne paghiamo il prezzo. Siamo noi che abbiamo fabbricato il jihadismo” .

Lottare contro l’Is e i jihadisti mentre si mantiene una piena collaborazione politica ed economica con le monarchie petrolifere è sintomo di una schizofrenia insostenibile. In questo quadro, l’Europa dovrebbe imparare dalla strategia di Barack Obama. Nella sua recente intervista alla rivista The Atlantic, il presidente statunitense ha detto senza mezzi termini che “l’Arabia Saudita propaga l’estremismo che ha generato il terrorismo” e con questa argomentazione ha giustificato la corsa all’indipendenza energetica degli Stati Uniti.

La sicurezza

Non serve a granché aumentare la presenza delle forze dell’ordine in strada. Va da sé che alcuni obiettivi potenziali (istituzioni, luoghi di culto o raduni di massa) devono essere oggetto di provvedimenti particolari. Ma se solo in Francia ci sono circa diecimila potenziali jihadisti, la lotta contro i terroristi dev’essere costruita a monte, con l’infiltrazione e l’intelligence.

Ogni esperto in materia sottolinea due pecche a cui rimediare : l’eccessivo ricorso ai mezzi tecnologici a scapito di quelli umani e la mancanza di coordinamento tra i paesi europei.

Tralasciando il sospetto che alcuni paesi, tra cui forse il Belgio, abbiano lasciato crescere cellule terroristiche sul loro territorio in cambio di una pace relativa, risulta evidente che la collaborazione rimane gravemente insufficiente. Basta pensare che non è ancora entrato in vigore l’obbligo imposto da Bruxelles alle compagnie aeree di registrare e conservare a lungo termine i dati dei passeggeri (il codice pnr). A ogni attentato i governi denunciano questa mancanza di coordinamento.

L’ideale sarebbe costituire un‘“Fbi europea”. Lo chiedono vari responsabili di governi nazionali ogni volta che capita un attentato. Ma bisogna evitare le ambiguità e le false promesse e dire chiaro e tondo che questo obiettivo è pura retorica demagogica. Per avere un ufficio investigativo come quello statunitense, all’Europa manca la “F” di Fbi, “F” come federale. Quale capo di stato o di governo è disposto a questo oggi in Europa? Non ci sarà mai una vera forza comunitaria di antiterrorismo (né un esercito europeo) senza un potere politico unito e federale che sia in grado di legittimare, orientare, formare e finanziare questa polizia e questo esercito. I governi nazionali devono assumersi le loro responsabilità e risparmiarci le lamentele sull’assenza di coordinamento dopo ogni attentato terroristico.

Coinvolgere le comunità musulmane

Dopo ogni attentato, le destre xenofobe puntano il dito contro i musulmani. Questi, dal canto loro, ricordano che anche loro sono vittime dei terroristi. Non solo metaforicamente: a Parigi come a Bruxelles, tra i morti e i feriti ci sono persone di fede islamica. L’obiettivo dei jihadisti è attizzare l’odio e creare divisioni. Cercano di dividere i musulmani dai loro concittadini proprio dove la maggior parte di loro è perfettamente integrata e rifiuta la violenza. Dobbiamo assolutamente evitare di cadere nella trappola della stigmatizzazione generalizzata.

Tuttavia, è anche tempo di chiedere alle comunità musulmane di fare un salto di qualità. Di respingere ogni attenuante, come quelle secondo cui i vignettisti di Charlie Hebdo avevano offeso Maometto o quelle sentite sui clienti dell’Hyper Kosher, che erano ebrei e dunque sionisti. Serve più impegno per isolare i criminali. Come ai tempi delle Brigate rosse, occorre svuotare lo stagno in cui i terroristi nuotano.

Ci sono segnali che fanno ben sperare. Da mesi, alcune famiglie hanno cominciato a denunciare i loro figli che si apprestano a partire per la Siria e numerosi leader religiosi si impegnano contro il radicalismo e le derive jihadiste. A cominciare dall’imam di Bruxelles Hocine Benabderrhamane, che ha detto: “Bisogna estirpare il fondamentalismo. Bisogna dire che i terroristi sono dei criminali, fare in modo che non si sentano a loro agio nella comunità e aiutare le forze di sicurezza”.

Un lavoro di lungo termine contro l’emarginazione, la ghettizzazione delle periferie, le discriminazioni sociali ed etniche è certo necessario. Ma un impegno coerente e articolato sui precedenti quattro punti appare indispensabile per non rassegnarci ad aspettare il prossimo attentato.

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