Venerdì mattina sapremo se dobbiamo riabituarci a usare l’espressione “l’Ue a 27”. Fino a pochi mesi fa il voto sulla permanenza del Regno Unito in Europa sembrava quasi irreale o comunque vagamente minaccioso. L’accelerazione degli ultimi tempi, con il rischio molto concreto della famigerata Brexit, conferma che la storia può conoscere scossoni improvvisi, anche pericolosi, e ci ricorda che la costruzione di un’Europa unita era, nello spirito dei fondatori, anche l’idea di “governare” la storia per evitare di sottostare ai suoi capricci.
Qualunque sia l’esito, il referendum britannico spinge a riflettere sul futuro dell’Unione europea e a sfatare alcuni luoghi comuni. Il primo è che il Regno Unito abbia frenato la costruzione europea. Senz’altro Londra ha sempre visto la sua adesione all’Ue soprattutto come un’aggregazione a una realtà economica dove regnano il mercato libero e l’ideologia neoliberista. Non ha aderito al progetto di un’Europa politica e integrata. In questo senso si è sempre opposta con decisione al potenziamento dei poteri di Bruxelles. Però frenare non è impedire. E quando gli altri paesi europei hanno voluto andare più avanti nell’integrazione, ce l’hanno fatta.
Malgrado l’opposizione di Londra, si è fatto l’euro. Malgrado Londra si è fatto Schengen. Malgrado Londra si è fatta l’unione bancaria. Conclusione: se Parigi, Berlino o Roma avessero voluto andare più avanti, avrebbero potuto farlo. Oggi Londra è solo un alibi per dei dirigenti nazionali pavidi che non hanno voluto costruire un’Europa federale fino in fondo.
François Hollande, da quattro anni al potere, non ha presentato nessuna proposta di riforma dell’Unione. Matteo Renzi è al potere da due anni, continua a parlare di “Stati Uniti d’Europa”, ma aggiunge che il problema è la “tempistica”, cioè che non è il momento storico giusto per costituirli. Sono proprio i governi nazionali del continente ad aver creato le condizioni per il referendum britannico. L’integrazione europea magari non spaventa il Regno Unito, ma di sicuro non gli ha provocato il desiderio di farne parte completamente.
Il secondo luogo comune da sfatare è che la Brexit rischia di provocare altre uscite. Non si può mai dire, la sorpresa è una legge non scritta della storia e il “suicidio” dei popoli è sempre in agguato. Ma in concreto rimane altamente improbabile che altri paesi cerchino a breve termine di uscire dell’Ue. Già l’anno scorso, la Grecia, al momento fatidico, ha preferito rimanere nella zona euro. Il Regno Unito, per dimensione, per influenza al livello mondiale e anche per motivi storici è l’unico paese che può veramente immaginare un suo futuro in un mondo globalizzato senza il legame con l’Unione.
Se Polonia o Ungheria rompessero con Bruxelles rischierebbero di ritrovarsi faccia a faccia con Mosca
Tutti gli altri, Germania in testa, sarebbero ridotti a essere dei comprimari o, peggio ancora, a rifare i conti con il loro passato. Difficile immaginare che gli eurofobi polacchi o ungheresi spingano i rispettivi paesi alla rottura con Bruxelles, rischiando così di ritrovarsi come la Bielorussia o l’Ucraina, faccia a faccia con Mosca. Il rischio che pone l’eventuale Brexit è l’inceppamento dei meccanismi dell’Ue, con i 27 paesi rimanenti sempre meno inclini a trovare compromessi. Più che uno sfaldamento generale il rischio è un deleterio ridimensionamento di tutto il progetto comune.
La terza considerazione nasce dalle due precedenti e riguarda il dopo referendum. Si dice che la Brexit (ma anche il Bremain) provocherà un sussulto da parte dei paesi fondatori e un rilancio del progetto di unione politica. Be’ non avverrà. Ci saranno senz’altro grandi annunci e forse dei piccoli passi avanti, tipo la creazione di un ministero del tesoro della zona euro. Ma niente di tutto quello che sarebbe necessario per rispondere alla crisi economica, sociale e identitaria degli europei. Per esempio, è molto difficile che in Francia, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, Hollande e tantomeno il centrodestra abbiano il coraggio di presentarsi davanti i cittadini per dire: “Ci vuole più Europa, ecco come faremo”.
I valori di Jo Cox
Per quanto riguarda il progetto prospettato da alcuni di creare nuove istituzioni nella sola zona euro, nello specifico un parlamento composto da deputati dei vari parlamenti nazionali, c’è il rischio che renda ancora più complesse le modalità per prendere decisioni.
E poi, aggiungere a commissione, consiglio europeo e parlamento di Strasburgo un nuovo parlamento per la zona euro, renderebbe la struttura di commando dell’Unione ancora più incomprensibile ai cittadini, oltre ad aumentare il sentimento di mancanza di legittimità democratica dell’Ue. Se c’è un elemento apprezzabile nel referendum britannico è che ha restituito ai cittadini la sensazione che il loro voto possa contare davvero, che possa provocare degli effetti concreti nella loro vita quotidiana. E l’impossibilità di disporre di strumenti politici come un referendum europeo è proprio una delle cose che manca oggi all’Ue.
La mattina del 24 giugno dunque sapremo se la casa comune avrà una stanza in meno. Se dovesse prevalere il Bremain di sicuro non sarà una vittoria di David Cameron, ma della deputata laburista Jo Cox, europeista, difensora dei diritti umani e dei migranti.
Tragicamente, la sua morte così ingiusta ha avuto l’effetto di riportare il dibattito sui valori, come avrebbe dovuto essere sin dall’inizio. Invece i sostenitori del Bremain hanno quasi esclusivamente parlato dei motivi per cui rimanere nell’Unione conviene economicamente. Non solo questo elemento è oggetto di dibattito (il Regno Unito è contributore netto nel bilancio dell’Ue, cioè dà più soldi di quanti ne riceve indietro) ma così facendo hanno lasciato il terreno dei valori e dell’identità ai loro avversari, tra i quali si sono distinti soprattutto nazionalisti e xenofobi.
È come se la morte di Jo Cox avesse all’improvviso svelato ai cittadini britannici le ragioni profonde per cui vale la pena rimanere in Europa, cioè valori come tolleranza, democrazia, laicità, rispetto per le minoranze. Forse gli unici valori davvero condivisi, da Atene a Berlino, da Lisbona a Riga.
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