La vicenda legata alle azioni dell’azienda di videogiochi GameStop è l’inatteso seguito dei disordini al Campidoglio di Washington del 6 gennaio: in entrambi i casi un’orda inferocita di persone assuefatte ai social network ha preso d’assalto le istituzioni più sacre dell’establishment. I rivoltosi di Washington, tuttavia, sono stati condannati da tutti, mentre i leader della crociata virtuale contro Wall street sono stati accolti in modo più positivo. Questo perché il settore dei fondi speculativi ha una cattiva reputazione.

C’è un altro motivo, tuttavia, dietro al plauso riservato all’iniziativa dei piccoli azionisti: molti di noi sono incantati dalla retorica della democratizzazione che ha accompagnato l’ascesa delle piattaforme per investire in borsa a basso costo. Una di queste, la Robinhood, ha fornito l’infrastruttura digitale per mettere in piedi la ribellione di GameStop. La missione della Robinhood è “democratizzare la finanza”. L’azienda vuole essere vista come una forza rivoluzionaria nella Silicon valley. La retorica della democratizzazione usata dalla Robinhood fa pensare più ad aziende come Uber, Airbnb e WeWork. Queste aziende digitali hanno promesso di democratizzare qualcosa: trasporti, ospitalità, spazio per gli uffici. Poco dopo essere nato, questo settore non ha più avuto limiti, scatenando una corsa globale alla democratizzazione di attività come il dog sitter, il baby sitter e il bucato.

La campagna globale per la democrazia è stata combattuta usando come armi i fondi che investono in capitali a rischio. Ma il desiderio di democratizzare ogni cosa è stato alimentato anche da fulgidi esempi di democrazia liberale come l’Arabia Saudita: alleandosi alla giapponese SoftBank, il governo saudita ha alimentato il mito della democratizzazione, riversando miliardi di dollari in aziende come Uber e WeWork. L’afflusso di denaro, insieme a modelli d’affari innovativi che hanno reso alcuni servizi un tempo a pagamento teoricamente gratuiti, ha creato un’illusione di progresso e mobilità sociale.

Piattaforme capitaliste
L’inevitabile processo di democratizzazione, sbandierato da tutte le piattaforme come prova del loro progressismo, è stato semplicemente una questione di calcolo numerico. In casi come quello della WeWork (il cui valore l’anno scorso è crollato da 47 a 2,9 miliardi di dollari) i calcoli non tornano neanche. Resta da vedere se la Robinhood, che il 29 gennaio ha racimolato di corsa un miliardo di dollari per restare a galla, sarà più fortunata. Nella maggior parte dei casi le promesse di democratizzazione, tuttavia, hanno reso simili calcoli irrilevanti. Questo spiega perché il settore tecnologico viene visto come il principale diffusore del populismo in tutto il mondo.

Mentre tutti avevano gli occhi fissi sul ruolo di Trump, rozzo e nativista, ci è sfuggito quello delle aziende tecnologiche nell’ascesa di un altro tipo di populismo: sofisticato, cosmopolita, urbano.

Nato nella Silicon valley, il “populismo delle piattaforme” ha portato scompiglio nelle forze reazionarie che ostacolano il progresso. È alimentato dalla teoria che il mondo non è quello che sembra: le aziende – taxi, alberghi, fondi speculativi – hanno cambiato le regole del gioco per favorire i propri interessi. Solo danneggiando le aziende si può sperare di trarre dei benefici dalle tecnologie digitali.

Nel capitalismo globale di oggi, stretto tra Wall street e la Silicon valley, il populismo delle piattaforme promette di contenere il capitalismo scatenandolo in forme ancora più selvagge. Il tutto per il bene dell’umanità. Poco importa che i soldi persi dai disprezzati fondi speculativi potrebbero appartenere a dei fondi pensione e altrettanto irrilevante è il fatto che buona parte della rigidità delle aziende predigitali esistenti sia dovuta al fatto che seguono le regole degli stati democratici (anche se capitalisti). Così, nell’universo capovolto del populismo delle piattaforme, smantellare le regole democratiche sottoponendole alla pressione della competizione capitalistica diventa una prova solida di democratizzazione.

Anche il fatto che buona parte della retorica del populismo delle piattaforme sia falsa, e che i vincitori finali saranno la SoftBank o l’Arabia Saudita, non importa. Questo populismo, privo di una sua ideologia coerente, è una questione di processi, non di risultati. Vuole dimostrare che, nonostante le macchinazioni dei burocrati governativi, la nostra capacità d’azione individuale è ancora viva. Questo è il suo obiettivo, certo non quello di portare a termine un programma politico di lungo periodo.

Molti degli attivisti che hanno preso di mira i fondi speculativi sono consapevoli che i guadagni sono temporanei. Ma chi gli può negare il piacere di riaffermare la loro capacità d’azione attaccando il sistema, sapendo che gli unici a trarne vantaggio a lungo termine saranno altri fondi speculativi?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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