Ci sono due modi principali per descrivere gli schemi evolutivi. Il gradualismo darwiniano prevede che gli organismi cambino gradualmente, generazione dopo generazione, e che la selezione naturale incanali la variabilità, onnipresente in natura, verso “soluzioni” ottimali ai problemi posti dall’ambiente. Gradualmente le specie evolvono e possono trasformarsi in altre specie.

Negli anni settanta, Eldredge e Gould proposero gli equilibri punteggiati. La forma di selezione più forte, secondo questo modello, è stabilizzante e le specie restano in equilibrio (cioè non cambiano) per molto tempo. Poi, all’improvviso, si verificano salti evolutivi che, appunto, “punteggiano” l’evoluzione. Usando la logica popperiana (a sproposito) i saltazionisti, con il loro modello, affermarono di aver falsificato il gradualismo e, allo stesso modo, i gradualisti, trovando esempi di evoluzione graduale, affermarono di aver falsificato il saltazionismo. Entrambi falsificano l’universalità dell’altra visione, ma non la sua esistenza: esiste l’evoluzione per salti ed esiste l’evoluzione graduale. Nessuna delle due spiega tutti i fenomeni evolutivi. Una “puntella” l’altra.

Che c’entra questo con la democrazia? C’entra, c’entra. La democrazia non è un prodotto obbligato della socialità, il marchio di fabbrica della nostra specie. La nostra storia sociale inizia con la famiglia, e poi con la tribù, poi ci sono stati regni e imperi, e qualche volta soltanto ci sono state forme di governo in cui, con opportuni accorgimenti, si è tentato di far governare “il popolo”. La Grecia, di solito riconosciuta come la culla della democrazia, non ha mai raggiunto grande complessità organizzativa. La democrazia era presente nelle città, ma queste si combattevano e non riuscivano a trovare meccanismi di governo sopra-cittadino. Di solito i popoli sono stati governati da re, imperatori, tiranni, oligarchie. Ogni tanto gli oppressi si arrabbiano e fanno fuori i prepotenti e, di solito, altri prepotenti prendono il posto dei precedenti.

L’occidente ritiene la democrazia come qualcosa di innato nel nostro modo di rapportarci gli uni con gli altri. E ritiene giusto “esportare” questo modello verso tutti gli altri popoli. A volte l‘“insegnamento” richiede un po’ di violenza, ma poi i vantaggi sono innegabili. Sarà. Come con l’evoluzione, a volte le cose vanno così, altre volte no. La democrazia, in Giappone, è arrivata con un bel salto, anzi con due: due bombe atomiche. Ed è arrivata in modo brusco anche in Germania, e anche in Italia. In altri posti, come in Inghilterra, è presente da tantissimo tempo.

Ora chiediamoci: ma l’Italia è davvero un paese democratico? Certo, lo è. Andiamo a votare e possiamo esprimere la nostra opinione. Se non ci sono candidati che ci piacciono, la colpa è nostra che non siamo in grado di esprimerli. Però, se ci pensate, la stramaledetta faccenda Berlusconi porta qualcuno a dire: ci hanno votato in tanti, e quindi abbiamo ragione. Eh no, la democrazia prevede che chi ha la maggioranza comandi, ma non garantisce che abbia ragione. Una vera democrazia ha meccanismi per impedire la dittatura della maggioranza.

Un mio amico me l’ha spiegato così: siamo in quattro a condividere un appartamento e, ogni sera, mettiamo ai voti chi debba lavare i piatti; mi metto d’accordo con gli altri due e, in tre, ogni sera votiamo che li devi lavare tu. Se ti opponi sei antidemocratico. Volete qualche esempio dal mondo reale? Il primo è successo in Algeria, ma ora sta succedendo in Egitto e, forse, anche in Tunisia e in Turchia. Si fanno le elezioni e un partito a forte base religiosa si presenta. Il suo programma è di abolire la democrazia e di instaurare un governo basato sui dettami di un libro scritto da una divinità. Quel partito vince le elezioni e quindi quel popolo, democraticamente, decide di rinunciare alla democrazia come la intendiamo noi. Chi ha perso le elezioni, per difendere la democrazia, va contro l’esito delle elezioni democratiche. Risultato: guerra civile. Da noi si vive troppo bene per fare una guerra civile vera, ma sono vent’anni che è in corso un guerra civile fredda. E non accenna a diminuire.

La prima volta che ho dubitato delle rivoluzioni democratiche è stato quando, in Persia (ora Iran) fu rovesciato lo scià. Arrivò Kohmeini e, all’inizio, fui proprio contento. Vedevo le sue interviste da Parigi, dove era esule, e mi sembrava un tipo a posto. Proprio come Morsi!

La democrazia prevede una forma di adattamento culturale molto profonda. Se la cultura del popolo che dovrebbe praticare la democrazia non è arrivata a conquistarsi quell’adattamento, il progetto fallisce. E pensare di poterlo imporre con la forza non porta a buoni risultati.

In Italia, per esempio, siamo ancora culturalmente molto lontani dalla democrazia. Noi non pensiamo che lo stato sia qualcosa di buono. Pensiamo che con la privatizzazione delle cose di stato si possano risolvere i problemi perché, semplicemente, non ci fidiamo dello stato. Lo stato è un nemico. Se un popolo vede lo stato come un nemico, non è maturo per esercitare la democrazia. Noi abbiamo ancora una visione contrapposta tra la nostra città o regione (spesso è proprio la città ad essere il centro di tutto e, se ci sono due squadre di calcio, sono guai persino nella stessa città) e lo stato. Al nord c’è la lega, al sud c’è la malavita organizzata, ma le cose non cambiano. Assistiamo a tentativi di instaurare forme di governo alternative a quella statale. In entrambi i casi assistiamo al sacco delle cose di stato e le due forme di antistato spesso si alleano, come forse mostra il giudizio espresso dalla magistratura sul caso Dell’Utri.

Adesso pensiamo alla Siria, all’Iran, all’Iraq, al Sudan, allo Yemen, alla Mauritania (la lista può continuare molto a lungo) a tutta una serie di stati che hanno ancora forme tribali di visione del potere. Con sette religiose contrapposte, con culture molto differenti e apparentemente inconciliabili, tipo quelle delle città dell’antica Grecia, a voler essere benevoli. La democrazia si ottiene esportando cultura, e l’evoluzione di solito è graduale, soprattutto nei popoli che sono culturalmente molto lontani dal questa forma di gestione del potere. E noi siamo tra quelli.

Volete una prova? In molte regioni d’Italia esiste un proverbio che dice: chi fa le parti ha la parte peggiore. Deriva dalla saggezza salomonica secondo cui chi fa le parti è l’ultimo a scegliere e, quindi, se ci sono parti diverse, visto che è l’ultimo a scegliere, gli tocca la peggiore. Ma questo proverbio si è “evoluto” in: chi fa le parti ha la parte peggiore (se è fesso). E l’ultima versione è: chi fa le parti ha la parte migliore. Il che significa che chi si trova a comandare è autorizzato a fare i propri interessi. Questo, da noi, viene accettato come inevitabile, anzi, come giusto. La strada da fare è ancora lunga. Per popoli lontani, ma anche per il nostro. Prima di pensare di esportare la democrazia, sarebbe bene che imparassimo a praticarla.

Ultimo esempio sui danni di una democrazia mal praticata. Abbiamo fatto le valutazioni del sistema universitario. E si dice che con la valutazione dovremmo capire dove stanno le “eccellenze” e dove le “sofferenze”. Vi svelo un segreto: le eccellenze sono poche, le sofferenze sono tante. I rettori si eleggono democraticamente. In un’università dove ci sono più sofferenze (cioè docenti che producono poco scientificamente) che eccellenze (docenti che producono al meglio) chi credete che determini l’esito delle elezioni? Indovinato: vincono i mediocri e gli eccellenti sono marginalizzati. In nome della democrazia! Se dovete farvi operare non ve ne importa nulla della democrazia. Volete andare nel posto migliore. E se c’è solo uno che sa fare certi interventi, volete quello. Perché volete il migliore, della massa dei mediocri non vi importa.

Bene, ora bisogna trasferire questo alla gestione dello stato. Trovando il bilanciamento tra il governo del popolo e il governo dei furbi o dei mediocri. Noi non ci siamo ancora riusciti, ed è meglio se non esportiamo proprio niente! Forse il nostro problema è che siamo un paese con un gran numero di mediocri che si credono furbi e che, forti del numero, stanno portando il paese alla rovina. Ma se lo diciamo siamo antidemocratici, no? Un bel dilemma.

Finisco con questo, che secondo me rende giustizia al proverbio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Sono in Marocco, e vado in pullman da Marrakech a Essaouira. Vedo molte aziende italiane che operano lungo quella strada. Come mai così tanti italiani?, chiedo al mio amico Mohamed. Semplice: voi siete corrotti e noi siamo corrotti. Ci intendiamo a meraviglia. Sono venuti i tedeschi e sono scappati dopo tre mesi. Bene, ora confrontiamo la fiducia che i popoli “democratici” hanno nei nostri confronti e quella che hanno nei confronti dei tedeschi. E non chiediamoci come mai il nostro paese non attira investimenti!

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