La rabbia del Libano dopo l’esplosione
“Non parlateci più di ‘coraggio’, parlateci di ‘rabbia’!”. Queste sono le parole ammirevoli pronunciate il 5 agosto da Josyane Boulos, attrice e attivista libanese. Il suo messaggio va confrontato con quello del ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che ha espresso il sostegno del suo paese al resiliente popolo del Libano. Sopporta docilmente colpe non sue, il popolo resiliente. E allora, una volta per tutte, dobbiamo dire no a questa resilienza letale in cui prosperano i nostri governanti, che si affidano alla nostra capacità di rialzarci in piedi ogni volta che la loro slealtà, la loro stupidità e la loro avventatezza ci spingono nel baratro.
Sotto un rullo compressore che non ci lascia tregua da quando siamo venuti al mondo, in questo paese dalle infinite promesse e miserie, abbiamo imparato a rialzare la testa, a rimetterci in piedi, a ricostruire quello che è stato distrutto, a curare chi è stato ferito, a seppellire chi è morto, e a riprendere la vita da dove si è fermata. “E senza dire una parola, metterti a ricostruire”, dice la famosa poesia di Rudyard Kipling nel riadattamento di André Maurois che i genitori appendono da anni nelle stanze dei bambini, come se fosse una fatalità, come se bisognasse abituarli fin dalla culla a questo gioco di scale e serpenti, a questi sfiancanti nuovi inizi che impediscono di avanzare. “Sarai un libanese, figlio mio”, avrebbe dovuto scrivere l’autore del Libro della giungla.
Come si fa allora, dopo che da due giorni nelle strade risuona il frastuono metallico così tipico dell’indomani delle catastrofi, a non pensare che questa è la goccia che fa traboccare il vaso, che ci rende troppo stanchi per seppellire, curare, o ricostruire? Per la crisi economica c’eravamo organizzati, facendo del nostro meglio perché in nessuna famiglia mancasse il cibo. Per la pandemia c’eravamo adattati, con mascherine, igiene, distanziamento. Ma che, oltre a tutto il resto, un’esplosione distrugga un’area enorme nel cuore di Beirut, gettando nel lutto il paese, che si scopra che la cosa è frutto di negligenza, di favoritismi, di traffici, di abusi di potere o delle tre cose insieme, e che con totale impudenza i nostri “responsabili” dicano di voler trovare a tutti i costi i responsabili, è più di quanto possiamo sopportare.
Non possiamo sopportare che il presidente della repubblica creda di consolare le famiglie definendo “martiri” le vittime, ignorando che questa parola, nella sua bocca, suona come un insulto. Martiri di cosa? Vorremmo proprio saperlo, quando l’unica cosa che sembra contare è la sua ossessione di regnare, di trasmettere la carica per via ereditaria, disprezzando le speranze di un popolo che, suo malgrado, è costretto a servire i piani di paesi stranieri. Sono morti, i nostri morti, signor presidente. E di una morte orribile. Nessuna promessa di paradiso o risarcimento divino ci consolerà per questo dolore.
Tra loro ci sono dei giovani, degli artisti, delle persone, come l’architetto Jean-Marc Bonfils, il cui talento serviva al Libano molto più delle menzogne e della propaganda. Persone che, come Marion Hochar, coglievano la durezza di questo paese con finezza, mescolando umorismo, la loro infinita cultura e la loro creatività. Ma non facevano parte di quel genere di cittadini che conta, giusto? Il cittadino ideale, secondo i vostri criteri, è quello che considerate il vostro successore: senza istruzione, stupido, senza altra ambizione che farvi da zerbino.
Diciamo “presidente”, ma di presidenti ne abbiamo avuti almeno tre della stessa pasta. Non ne abbiamo mai visto uno per le strade. Nessuno si è degnato di sporcarsi le scarpe e affrontare il cataclisma di cui è in parte responsabile. Sicuramente si fregano già le mani al pensiero degli aiuti che dovrebbero arrivare, dopo che l’infinità di sventure che c’infliggono ha ormai suscitato la commozione anche negli angoli più remoti del pianeta. Sicuramente stanno già pensando a come spartirseli.
Ditegli che non abbiamo più coraggio. Ditegli che non saremo mai più resilienti. Ditegli che siamo animati da una collera omerica. Ditegli che è meglio il vuoto della loro presenza abietta. E ditegli che le folle estenuate preparano già le forche, se non se ne andranno di loro spontanea volontà.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul giornale libanese L’Orient-Le Jour.
Il 4 agosto un’enorme esplosione ha devastato la zona portuale di Beirut. A causarla sarebbero state quasi tremila tonnellate di nitrato di ammonio, un composto chimico usato come fertilizzante ma anche per produrre esplosivi. Interi edifici sono stati sventrati. Cinquemila persone sono rimaste ferite e 137 sono morte. Il 5 agosto le autorità libanesi hanno messo ai domiciliari i funzionari portuali della capitale. La presenza del nitrato di ammonio era stata segnalata anni fa all’autorità portuale. Secondo il New York Times il materiale sarebbe stato sequestrato nel 2013. Era trasportato dalla nave Rhosus, partita dalla Georgia e diretta in Mozambico, ed era destinato a un’azienda che si occupa di esplosivi industriali. Tuttavia l’armatore della Rhosus non aveva abbastanza soldi per pagare il passaggio attraverso il canale di Suez e la nave fu costretta a fermarsi a Beirut. Fu sequestrata perché anche lì non pagava le spese per la sosta. L’agenzia doganale libanese avvertì ripetutamente del pericolo legato al carico, ma nessuno fece niente, se non spostarlo in un magazzino.