Uno dei casi che ha fatto più discutere in questi mesi è stato quello di Alberto Genovese, imprenditore accusato di aver sequestrato e stuprato nel suo attico di piazza Beltrade a Milano una ragazza di 18 anni, A., in una notte di sevizie registrate da 19 telecamere per venti ore di fila.

In queste settimane la stampa ha restituito una cronaca di quelle ore sulla base del materiale degli inquirenti, ricostruendo il contesto e le modalità delle violenze inflitte alla vittima. Prima la festa, il 10 ottobre 2020, in quella che è stata chiamata “terrazza sentimento”, con lo champagne, i piatti di cocaina e ketamina, insieme alla costosissima cocaina rosa e al Ghb, un farmaco definito “droga dello stupro” perché, a dosi elevate, rende inconsapevoli e incapaci di ricordare. La stessa sostanza, per capirci, che nella bellissima serie tv di Michaela Coel I may destroy you viene data alla protagonista, Arabella.

Poi la violenza che Genovese infligge alla vittima, che rimane in uno stato di alterazione psicofisica per quasi tutto il tempo, mentre lui le somministra ripetutamente una sostanza che la rende incosciente e incapace di opporre resistenza, fino a trasformarla in una specie di corpo senza vita, una “bambola di pezza”, dicono gli inquirenti, che lui sposta, fotografa, abusa e tortura senza fermarsi nemmeno quando lei gli chiede pietà. Infine l’epilogo alle 21.45 del giorno dopo, quando A. riesce a scappare dalla casa in cui Genovese l’aveva sequestrata per venti ore, con una scarpa sola e abiti non suoi, prima di finire ricoverata alla clinica Mangiagalli di Milano, dove verrà dimessa tre giorni dopo con lesioni in tutto il corpo e una prognosi di 25 giorni.

Bisogna aspettare la mattina del 12 ottobre perché Genovese, ore dopo averla trascinata per i capelli fino alla camera degli ospiti e dopo averle gettato dalla finestra l’altra scarpa, riceva la visita della polizia e si renda conto che le sue stesse telecamere interne avevano filmato tutto. E bisogna aspettare diversi giorni perché, alla testimonianza di A. se ne aggiungano altre cinque, tra cui quella di M., che ha accusato Genovese e la fidanzata di averla stordita somministrandole una sostanza a sua insaputa per poi abusare di lei per tutta la notte, fino a quando sei ore dopo M. si ritrova nel bagno, piena di lividi, incapace di mettere in fila i propri ricordi.

Lo smarrimento dei giornali
Sui giornali italiani si è registrato una sorta di smarrimento. Genovese non è un imputato come un altro: laureato in economia aziendale alla Bocconi e con un master alla Harvard business school, nel 2014 vende la sua azienda Facile.it per cento milioni e poi fonda Prima assicurazioni, su cui Goldman Sachs e Blackstone investono cento milioni. Per molti versi, l’imprenditore incarna i valori della società di oggi: è un self-made man che si è arricchito velocemente, rappresenta la storia vincente del capitalismo contemporaneo e la narrazione glamour e spettacolare di storie come la sua va in crisi di fronte alle accuse di violenza.

Il giorno dopo l’arresto del 6 novembre 2020 alcuni titoli di quotidiani parlano di “imprenditore mago delle startup”. Il Sole 24 ore descrive Genovese come “un vulcano di idee che, al momento, è stato spento”, a indicare il rammarico che alcuni provano quando un “genio delle piattaforme” è costretto a interrompere la sua scalata imprenditoriale a causa di un’inchiesta giudiziaria.

In Down girl. The logic of misogyny Kate Manne usa la parola himpathy per descrivere l’empatia sproporzionata di cui godono gli uomini potenti nei casi di violenza sessuale. In quello di Genovese, questa empatia è anche un sintomo del rispetto riservato a chi come lui conquista rapidamente il mercato.

Da principio, questa narrazione è sottoposta a una critica severa, come si confà a un momento storico che segue al processo per stupro di Harvey Weinstein e al #MeToo. Le giornaliste di Alley Oop chiedono alla redazione del Sole 24 ore di modificare l’articolo. Alla fine l’articolo sarà modificato e la redazione si scuserà. Bisognerebbe ringraziare molte generazioni di femministe e il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere di Non una di meno per aver fatto un lavoro pedagogico indispensabile per spiegare alla società che cos’è uno stupro e come si racconta. Purtroppo, in Italia il dibattito si ostina a creare un clima ostile nei confronti delle vittime e indulgente nei confronti di chi compie le violenze, in un processo che non solo oscura gli aspetti importanti di questa vicenda ma non ci consente di capirla fino in fondo.

Le mitologie della violenza sessuale
Prendiamo per esempio le dichiarazioni di Genovese nelle cinque ore e mezza di interrogatorio, riportate il 13 gennaio 2021 dal Corriere della Sera. Secondo l’articolo, Genovese si è detto “tormentato dall’incapacità di distinguere la realtà dalla finzione”, preda di “allucinazioni uditive”, rovinato dalla cocaina che gli fa sentire “voci”, con pochi “ricordi molto confusi”, uno dei quali è l’immagine dei due a letto con momenti di tenerezza.

Il romanticismo è interrotto solo dalla realizzazione di essere circondato da donne che sono “tutte prostitute” e da una corte di amici che in realtà è “una macchina succhia-soldi” e questa cosa lo fa “stare male”. Il vittimismo di Genovese è un cliché in casi come questi, che da un lato rimanda al rifiuto di prendersi la responsabilità per la violenza, e dall’altro al tentativo di spostarla sulle vittime, rappresentate per l’appunto come “prostitute”.

Lo spiegava qualche anno fa Marina Valcarenghi in un prezioso testo dal titolo Ho paura di me. Il comportamento sessuale violento nel quale analizzava le testimonianze di uomini in carcere per crimini sessuali. Uno dei punti centrali era la tendenza dello stupratore ad autogiustificarsi. Si tratta di un processo di rimozione della responsabilità che fa leva su due argomenti principali. Il primo è che la violenza sia stata eseguita in una circostanza caratterizzata da una sospensione della consapevolezza: non ero in me, ho “ricordi molto confusi”, sento “voci”, eccetera. La seconda è che questa circostanza sia stata causata dalla vittima, che avrebbe provocato l’aggressore fino a indurlo alla violenza.

Purtroppo il victim blaming, cioè la tendenza ad accusare le vittime della violenza subita, è un’abitudine dura a morire in Italia. Nel libro Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 ad oggi Joanna Bourke ricostruisce “le mitologie” della violenza sessuale, quell’idea per cui non si può dare la colpa a un predatore perché il suo istinto è ostaggio di una sessualità impetuosa e irreprimibile, un “istinto rapace” che induce il suo possessore a fare del male alla vittima anche se non lo vorrebbe. Al contrario, le donne sono spesso rappresentate come le vere responsabili della violenza che subiscono, perché “in fondo gli piace”, perché il loro “no” in verità sottende un “sì”, perché sanno di avere “a loro completa disposizione la reputazione di qualunque uomo abbiano occasione di incontrare”, e la distruggeranno per denaro non appena possibile, come lamentava il Times già nel 1866.

Strategie di difesa
Questi cliché sono stati cavalcati in alcuni processi recenti. Pensiamo al caso Weinstein, il produttore di Hollywood condannato a 23 anni di carcere per aver violentato numerose donne. Per proteggere la sua reputazione, Weinstein aveva messo in atto una strategia tesa a minare la credibilità delle sue vittime, accusandole di memory failure, e cioè di ricordare cose false, mai accadute e inaffidabili.

Il clima ostile creato da Weinstein tendeva a creare quella che gli psicologi chiamiamo “istituzionalizzazione dell’incredulità”, una narrazione capace di minare la credibilità della vittima mantenendo allo stesso tempo un attento management della reputazione dell’accusato. Ascoltiamo una cosa simile quando durante la trasmissione Non è l’arena su La7 compaiono in studio l’amico di Genovese Daniele Leali e la fidanzata Marilisa Loisi, che sostengono la non credibilità delle vittime visto che, se fosse stato stupro, si sarebbero comportate diversamente. Perché, come ha detto Loisi, una donna “deve saper dire di no”; perché “tu donna, quando uno sconosciuto ti chiede di entrare nella sua camera da letto, tu gli dici sì o no?”; perché “le ragazze lo sapevano che ad Alberto piace il sesso spinto”; perché “i soldi la ragazza li prendeva per prostituirsi”; perché “e se prima del video c’è una contrattazione?”; perché bisogna indagare “il modus operandi della ragazza”, eccetera.

Il victim blaming è uno dei capisaldi della storia della violenza sessuale, ed è uno dei primi problemi da estirpare per impedire la legittimazione e la ripetizione di casi come questo.

In guardia
La discreta, anche se non estesa letteratura sul Drug-facilitated sexual assault (Dfsa) – come sono definiti i casi di stupro in cui l’aggressore usa intenzionalmente una sostanza chimica per esercitare la violenza – ci mette in guardia, parlando di violenza, spesso sottovalutata, sadica, di rado denunciata e di sovente recidiva, che spesso lede la vittima almeno quanto tutela il carnefice.

La somministrazione di sostanze come il Ghb, infatti, permette al carnefice di agire sulla memoria della vittima, impedendole di essere certa di essere stata aggredita sessualmente. Per Gail Abarbanel, direttrice del centro antiviolenza dell’Ucla medical center a Santa Monica, in California, alcune donne trovano i segni dell’aggressione solo quando riprendono conoscenza, perché si trovano svestite; con macchie di sperma sul corpo o sui vestiti; traumi vaginali o anali, dolori e lacerazioni. Quasi tutte riportano danni alla memoria, e non ricordano cosa sia stato fatto loro o quante persone fossero presenti, esattamente com’è avvenuto ad A., la prima a denunciare Genovese. Ne consegue che in questo tipo di violenza, la vittima spesso non può o non riesce a denunciare, perché non ricorda, non è sicura o si sente responsabile, con il risultato che spesso si ritrova sola e traumatizzata a cercare di mettere insieme i pezzi. È per questo che di violenze del genere si sa relativamente poco, perché somministrando la “droga dello stupro” il carnefice non solo priva la vittima della possibilità di esprimere o negare il proprio consenso ma, spesso, anche di denunciare.

Il che è particolarmente problematico perché, al netto dell’indulgenza che molti mezzi di informazione riservano a persone come Genovese, resta che questo tipo di violenza, come scrive giustamente la giurista Patricia J. Falk, “rende le vittime oggetti inanimati, in un atto che è in antitesi con l’umanità e a un passo dalla necrofilia”.

Nel discutere questo caso, quindi, non si può prescindere dall’efferatezza della violenza inflitta a una donna appena maggiorenne ed esanime. Secondo Michael Welner e Barbara Welner non è un caso che gli autori di violenze come questa abbiano personalità astute, sfacciate e senza rimorsi, e spesso siano motivati dall’idea di dominare. Predatori, insomma, raramente colti in flagrante e tutti da analizzare, nella loro struttura psichica, nella motivazione e nell’immaginario che li guida.

Seppur tardi, dunque, la prima cosa da fare nella vicenda che vede coinvolto Genovese, e in casi simili di violenza, è ringraziare le vittime per essere state così lucide da capire cosa stava succedendo e così coraggiose da denunciarlo, aiutando, in questo modo, molte altre donne. Per poi spostare l’attenzione su di lui.

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