Da qualche giorno i mezzi d’informazione internazionali dedicano molte riflessioni a The chair, la serie di Netflix scritta da Amanda Peet e Annie Wyman, sceneggiatrice e accademica di Harvard. La rivista statunitense The Atlantic l’ha definita la migliore serie di Netflix da molti anni; secondo il New York Times è una “satira pungente del mondo accademico” mentre per il Time è anche “un racconto piuttosto accurato di quel che significa essere una docente nera nell’università contemporanea”, aggiungendo che “per questo è dolorosa da guardare”.
The chair è la storia di Ji-Yoon Kim, una donna di origini coreane nominata prima direttrice del dipartimento di inglese della Pembroke university – un’università statunitense immaginaria in cui questo ruolo era stato ricoperto solo da uomini bianchi. Interpretata dalla bravissima Sandra Oh, Ji-Yoon Kim è una donna empatica con un grande senso etico e di giustizia sociale, che si prepara a svolgere il ruolo di direttrice con una serie di priorità: l’attenzione al “cambiamento climatico, al razzismo, al sistema carcerario e all’omofobia”, che per lei sono i problemi principali di oggi.
Queste priorità la guidano fin dal principio, a partire dalla scelta di affidare la distinguished lecture – la più importante lezione pubblica dell’anno – a Yasmin McKay (Nana Mensah), studiosa amata dagli studenti, in corsa per diventare la prima docente nera di ruolo nella storia del dipartimento. E poi quella di non licenziare i docenti più anziani, che il preside definisce “dinosauri ingombranti” e che si vedono ancora come gli unici depositari del canone della letteratura inglese.
Misoginia e razzismo
Il lavoro di Sandra Oh non è semplice. Né il ruolo di direttrice né la sua integrità sono sufficienti perché una donna possa cambiare qualcosa in un contesto conservatore come l’università. Di fatto, mentre la serie si propone di celebrare alcuni cambiamenti – oggi negli atenei occidentali cominciano a esservi delle direttrici – ciò che realmente fa è evidenziare quanto la misoginia e il razzismo siano duri a morire in istituzioni conservatrici come l’università.
E infatti, mentre gli studenti chiedono strumenti critici per affrontare il presente e mentre Ji-Yoon difende “l’ecocriticismo, lo sviluppo degli studi di genere e la teoria critica della razza” come linee di ricerca importanti per cambiare la società disuguale nella quale viviamo, le richieste che arrivano dall’amministrazione e dai colleghi vanno nella direzione opposta. Il preside vuole tagliare i costi, ridurre l’organico e aumentare le immatricolazioni, non tanto perché abbia a cuore la dispersione scolastica ma per aumentare gli introiti provenienti dalle tasse universitarie, crollati del 30 per cento nel dipartimento di inglese.
Per questo vuole licenziare i “dinosauri” e reclutare David Duchovny, l’attore che interpretava il detective Mulder in X-files e che nella serie incarna se stesso, presentandosi come la star dello spettacolo che non ha mai letto un articolo accademico ma che può usare la sua fama per attirare studenti. “Mi è capitato di incontrare una persona del genere al mercato agricolo”, dice il preside per convincere Ji-Yoon ad assumerlo. “Ha una casa di campagna da queste parti. Abbiamo iniziato a parlare e ho pensato: ecco il tipo di persona che può rivitalizzare lo studio della letteratura”.
Le autrici mostrano con grande maestria in quanti modi diversi le donne siano rese invisibili
Sono tutti ingredienti che descrivono bene l’università di oggi: un’istituzione conservatrice, martoriata dalla precarietà, dai tagli e da tasse sempre più alte, ostaggio di un canone culturale fermo all’epoca coloniale in cui, troppo spesso, le discipline tese alla trasformazione sociale sono considerate “inutili” e il sapere diventa spettacolo.
È divertente vedere Duchovny che tenta di persuadere Ji-Yoon del valore intellettuale del primo capitolo della sua tesi di dottorato, una tesi cominciata trent’anni prima e mai portata a termine, mentre immagina come suonerebbe la parola “prof” davanti al suo cognome. È divertente ma è tragico al tempo stesso, perché mentre le autrici mettono in scena la sconcertante adulazione che le università mostrano nei riguardi delle celebrità – in Italia non si contano le lauree ad honorem attribuite negli anni a cantanti, calciatori, o personaggi controversi, per le ragioni più disparate – si capisce che stiamo guardando la punta dell’iceberg di quel processo di svuotamento e spettacolarizzazione del sapere.
Ji-Yoon fa di tutto per rimanere coerente con i suoi princìpi, ma trova sempre davanti a sé un muro. In fondo, il pregio più grande di The chair è precisamente la sua capacità di mostrare la cassetta degli attrezzi usata per ricacciare Ji-Yoon continuamente nell’invisibilità e ridicolizzare ogni suo sforzo. Tra questi attrezzi troviamo il mansplaining, la pratica con cui gli uomini si ostinano a spiegare alle donne cose che queste sanno già, giusto per “rimetterle al loro posto”. È ciò che accade quando David Duchovny corregge Ji-Yoon per la sua pronuncia delle parole in inglese, specificando di non farlo “perché sei asiatica, cioè non lo so se sei asiatica, io non vedo il colore della pelle o la razza.. neanche i volti ormai, vedo solo l’aura”.
Di uomini che zittiscono le donne è piena la serie, la stessa Ji-Yoon è interrotta o ignorata quando parla.
Le autrici Amanda Peet e Annie Wyman mostrano con grande maestria in quanti modi diversi le donne siano rese invisibili anche quando svolgono incarichi di potere. Si tratta sempre di dinamiche sottili, ma tutt’altro che insignificanti, a indicare precisamente quanto il razzismo e la misoginia pervadano ogni dettaglio della nostra quotidianità. E così, mentre Ji-Yoon si ostina a difendere i saperi critici, gli studi di genere e la critical race theory – la teoria critica della razza presa di mira dall’ex presidente Donald Trump perché spinge ad assumersi le responsabilità per l’impatto del colonialismo nella nostra storia e cultura – Ji-Yoon si trova a essere protagonista di situazioni surreali, che costringono le sue visioni etiche di giustizia sociale a finire in un nulla di fatto.
The chair mette in scena la tragica impasse dell’università contemporanea. Come ha detto Amanda Peet “l’accademia è una pentola a pressione in questo momento”, alimentata in parte dalla “tensione intergenerazionale” tra i “giovani idealisti”, le “persone di mezza età il cui idealismo si è affievolito” e le “persone più anziane che un tempo si consideravano pionieri”.
Da un lato, gli studenti chiedono un sapere critico per affrontare i problemi più urgenti dell’epoca contemporanea. Dall’altro, chi governa l’università vuole tagliare l’organico, reclutare studenti-clienti che paghino le tasse, rimuovere i docenti più radicali e se possibile creare una bella università-spettacolo con qualche celebrità, qualche benefattore e pochi corsi inutili. E infine ci sono i dinosauri, i guardiani del canone che vigilano perché il loro ruolo non sia ridimensionato. Lo studioso statunitense Luke Harris parlava di “diminuita sovrarappresentazione” per descrivere chi è in una posizione di privilegio e si sente minacciato da un approccio più inclusivo in termini di genere, razza o orientamento sessuale. Elliot Rentz, l’anziano docente bianco che in The chair fa di tutto per impedire la promozione della docente nera Yasmin McKay, ne è una buona rappresentazione: tenta di impedire che sia scalfita la naturale sovra-rappresentazione degli uomini bianchi tra i decani del dipartimento, perché “l’ordine naturale delle cose” non può essere sovvertito dall’irresponsabilità di una donna nera con un gran talento.
Quello che Peet non ha detto, nelle sue dichiarazioni, è che in queste condizioni l’università non è riformabile. Ji-Yoon invece lo spiega chiaramente: “Mi sento come se qualcuno mi avesse dato una bomba a orologeria perché voleva essere sicuro che la terrà in mano una donna quando esploderà”. È difficile darle torto.
Purtroppo, The chair mostra come il mondo della cultura contemporaneo sia spesso ostaggio di chi vuole che la nostra società rimanga disuguale e discriminatoria, come lo è stata troppo a lungo in passato. Per fortuna c’è ancora chi si adopera coraggiosamente per cambiarla, nonostante le avversità.
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