A Barcellona, almeno fino a un paio di mesi fa, era possibile capitare per caso su una mostra intitolata “Memorias migrantes”. Per caso perché la mostra non era in un museo, ma all’aperto, in una sorta di androne che da calle Carders porta ai giardini di Pou de la Figuera, nel quartiere di Santa Caterina. Grandi fotografie in bianco e nero, stampate e incollate ai muri come manifesti, accompagnate da testimonianze e riflessioni su cosa significa essere “migranti”. Le testimonianze erano state raccolte tra persone di generazioni diverse - spagnoli emigrati in Francia ai tempi di Franco, giovani senegalesi sopravvissuti all’odissea verso l’Europa… - unite da un’esperienza che il fotografo Sebastião Salgado riassume così all’inizio del suo libro Êxodos:
“Poche persone abbandonano le proprie radici per scelta. Nella maggior parte dei casi sono costrette a trasformarsi in rifugiati o esiliati da forze che non possono controllare, dalla povertà, dalla repressione o dalle guerre. Fuggono con i pochi beni che riescono a portare con sé e si mettono in viaggio come possono, su barche fatiscenti, treni sovraffollati, stipati nei camion o a piedi. Viaggiano soli, con la famiglia o in gruppo. Alcuni sanno dove sono diretti e sperano in una vita migliore. Altri si limitano a fuggire, felici di non essere morti. Molti di loro non raggiungeranno vivi la loro meta”.
Dal 1951 esiste una definizione giuridica del termine “rifugiato”: “Chiunque, nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto stato”. Sulla base di questa definizione, tratta dall’Articolo 1 della Convenzione di Ginevra, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ogni anno dà una stima di quante persone hanno dovuto lasciare il proprio paese per uno dei cinque motivi contemplati dalla convezione. Nel 2011 sarebbero state oltre ottocentomila.
Il 20 giugno, giornata mondiale del rifugiato, è l’occasione per presentare questi dati e “rendere omaggio ai rifugiati” (così sul sito dell’Unhcr) attraverso varie iniziative. A Bruxelles, per esempio, la piazza su cui affaccia il Parlamento europeo è diventata all’improvviso un teatro di guerra:
http://www.youtube.com/watch?v=Ut79ZutM8cs
Da domani, però, si tornerà alla gestione quotidiana della “questione rifugiati”. E questo, nei paesi dell’Unione europea, spesso vuol dire mettere la Convezione di Ginevra in un cassetto e chiuderlo a chiave per un altro anno. Chi scappa dal proprio paese e riesce - quando riesce - a raggiungere l’Unione, deve armarsi di grandi doti oratorie e investigative, perché molti paesi si appigliano a una parola dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra - “giustificato” - per negare lo status di rifugiato ai richiedenti asilo. Chi non convince è espulso e torna alla casella di partenza.
Nel suo rapporto Global Trends 2011, l’Unhcr osserva che nell’Unione europea il tasso di riconoscimento delle richieste d’asilo varia molto da paese a paese: nel caso dei richiedenti asilo afgani, si passa dal 3% dei Paesi Bassi al 33% dell’Austria. Eliminare queste e altre disparità è uno degli obiettivi della Commissaria europea agli affari interni Cecilia Malmström, che sta cercando di rafforzare le tutele previste dal Sistema europeo comune di asilo (presentato in modo molto chiaro sul blog Asilo in Europa). Non dev’essere piacevole, per Malmström, scontrarsi regolarmente con l’indifferenza o l’ostilità dei leader europei, che pensano innanzitutto a rafforzare il loro indice di popolarità. Di recente su Twitter Malmström si è detta “delusa dall’assenza di ambizione europea tra gli stati membri nelle discussioni su Schengen”, discussioni che, il 7 giugno, hanno portato il Consiglio dell’Unione europea ad autorizzare il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne indipendentemente dal parere del Parlamento europeo.
Discussions on schengen in JAI. Disappointed by lack of European ambition among member states/CM
— Cecilia Malmström (@MalmstromEU)
Juin 7, 2012
A fine maggio Maggie De Block, segretario di stato belga per l’asilo e la migrazione, ha annunciato che nel 2013 il Belgio accoglierà cento rifugiati “veri”: persone inserite nei programmi di reinsediamento dell’
Unione europea, dell’Unhcr o di altre organizzazioni. “Queste persone hanno veramente bisogno del nostro aiuto. Sono rifugiati che da soli non hanno la possibilità di venire qui e che non sanno dove altro andare”, ha dichiarato, lasciando trasparire tutta la sua diffidenza verso chi, “da solo”, riesce a raggiungere il Belgio. Persone come Giresse, Naima e Sahil, che nei ritratti dell’artista Kristina Ianatchkova raccontano senza parole il loro lungo viaggio.
L’Europa è così: pronta a farsi in quattro in occasione del 20 giugno e a commuoversi sulla sorte dei rifugiati che sono lontani, in qualche campo del Pakistan o del Kenya. Diffidente e cinica verso chi oltrepassa le sue frontiere e chiede protezione.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles, collabora con Internazionale e scrive di cultura e immigrazione, anche su Twitter (@ettaspin).
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