Ci sono voluti tre anni per sapere con certezza com’è morto Jonathan Jacob nella cella di un commissariato di Mortsel, in provincia di Anversa. Non è stata un’inchiesta o un processo a stabilirlo, ma le immagini trasmesse dall’emittente fiamminga Vrt il 21 febbraio scorso e riprese da vari mezzi d’informazione, anche stranieri. Il 6 gennaio 2010 Jonathan è morto sotto i colpi di sei agenti incaricati di immobilizzarlo mentre gli veniva somministrato un calmante. Solo uno di loro è sotto inchiesta.
Non sappiamo ancora come andrà a finire la vicenda giudiziaria, ma senza quel video la verità sulla morte di Jonathan non avrebbe avuto nessuna probabilità di emergere, perché di norma, in Belgio come altrove, i poliziotti autori di violenze non vengono condannati, spesso nemmeno incriminati. Le violenze contro la polizia, invece, “sono oggetto di un arsenale legale specifico, di un’attenzione politica notevole e di una repressione giudiziaria severa”, come denuncia la Ligue des droits de l’homme (Ldh), un’associazione belga nata nel 1901. Per combattere questo “squilibrio”, il 14 marzo la Ldh ha lanciato, grazie al lavoro di un gruppo di volontari, il primo Osservatorio delle violenze della polizia del paese, con lo scopo di raccogliere le testimonianze di chi ha subito queste violenze e informare i cittadini sui loro diritti e doveri di fronte alle forze dell’ordine.
Geneviève Parfait è una delle ideatrici di questo osservatorio. Quando la incontro in un bar di Bruxelles, a metà aprile, il sito esiste da un mese. Le racconto cos’è successo in Italia durante quel mese: al processo sulla morte di Stefano Cucchi i pm hanno chiesto pene tra i due e i sei anni e otto mesi di reclusione per gli imputati, tra cui tre agenti; e Patrizia Moretti ha dovuto assistere al sit-in dei poliziotti che sostenevano i colleghi condannati per l’omicidio del figlio, Federico Aldrovandi. Geneviève sgrana gli occhi: “Roba da pazzi…”.
Com’è nato il progetto di questo osservatorio?
L’idea è nata dopo il campo No Border del 2010, qui a Bruxelles. C’erano stati 450 arresti, molto violenti, tutti cosiddetti preventivi (tre anni dopo sono arrivate solo due condanne per resistenza a pubblico ufficiale, e siamo in appello). Avevo visto comportamenti che andavano oltre l’immaginabile. Certo, c’erano già stati Strasburgo, Genova, Heiligendamm, Copenaghen… E si capiva che il problema non erano gli abusi di uno o due agenti. Ma i fatti di Bruxelles mi hanno sconvolta, anche perché questa è la mia città.
Avete ricevuto molte denunce dopo il campo No Border?
La Ldh ha ricevuto decine di testimonianze di persone che non si conoscevano e che descrivevano uno stesso tipo di comportamento. Oltre alla violenza fisica, c’era stata una fortissima volontà di umiliare i giovani – la maggior parte dei partecipanti al campo aveva tra i 18 e i 35 anni. Sono testimonianze terribili, che fanno piangere. Abbiamo incoraggiato le persone a sporgere denuncia, spiegando come fare, offrendo il nostro sostegno. Non l’ha fatto praticamente nessuno, per vari motivi: alcuni contestavano il sistema, altri si sentivano troppo a disagio, spesso c’era una grande sfiducia. Prima ancora di pensare all’osservatorio, mi sono detta che serviva un luogo dove le persone potessero sfogare la loro sofferenza, perché di questo si tratta, di esperienze estremamente dolorose. Ma bisognava anche capire cosa fare di questa sofferenza: non siamo né psicologi né avvocati, non avremmo potuto seguire i singoli casi. Si è formato un piccolo gruppo all’interno della Ldh e abbiamo deciso di creare un osservatorio che raccogliesse tutte queste informazioni, facendo sentire alle persone che la loro testimonianza non era inutile.
Quante persone hanno lavorato alla creazione dell’osservatorio?
Il sito è frutto del lavoro di un gruppo di volontari – io, alcuni giuristi, un webmaster, una documentarista. Abbiamo deciso di rimanere associati alla Ldh, perché ci avrebbe assicurato una certa legittimità agli occhi delle persone.
Un sindacato ha criticato la vostra iniziativa sostenendo che si può già sporgere denuncia se si è vittima di violenze da parte della polizia. In particolare citava il Comité P (Comitato permanente di controllo dei servizi di polizia), nato nel 1991 come organo esterno e indipendente.
In realtà il Comité P non è affatto indipendente, perché è formato da persone che provengono dalla polizia e che tornano a lavorarci dopo aver fatto parte del comitato. Questo fatto è stato sottolineato anche dalla Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2010. Se questo e altri strumenti esistenti funzionassero, non avremmo bisogno di un osservatorio. Ma le denunce quasi sempre cadono nel vuoto, quindi non risultano nelle statistiche. E così il problema non esiste!
Il vostro sito dà molto spazio alle informazioni pratiche: quali sono i diritti del cittadino di fronte a un poliziotto, come fare per sporgere denuncia…
L’altro scopo è proprio quello di informare le persone: a chi possono rivolgersi, in che modo, cosa devono aspettarsi, in che tempi e via dicendo. Molti, per esempio, hanno paura di tornare nel commissariato dove hanno subito una violenza e di ritrovarsi di fonte lo stesso agente, ma non sanno che possono sporgere denuncia in qualunque altro commissariato.
A un mese dal lancio dell’osservatorio, quali sono le vostre prime impressioni?
In dieci giorni abbiamo ricevuto quattromila visite: per un sito così è enorme. Le testimonianze non sono tantissime (non vogliamo ancora dare cifre esatte), ma posso già dire che non provengono solo da giovani di quartieri difficili, come uno potrebbe immaginare. Anzi!
Ricevete anche testimonianze di agenti di polizia?
All’inizio volevamo limitarci alle vittime degli abusi, poi qualcuno ci ha fatto notare che sarebbe stato più interessante aprirsi anche ai poliziotti, e abbiamo ricevuto alcune testimonianze di agenti. Non deve stupire, perché anche loro sono privi di un canale per sfogare il proprio disagio. Detto ciò, la nostra preoccupazione principale non è aiutare gli agenti in difficoltà.
Esistono osservatori simili in Europa?
So che ce n’è uno a Marsiglia, e conosco qualcuno che sta lavorando a un progetto simile sempre in Francia, ma non è ancora stato lanciato. E poi c’è Copwatch, in Francia e in Gran Bretagna, ma il principio è un po’ diverso: loro cercano di individuare i poliziotti violenti per denunciarli pubblicamente.
In che rapporti siete con le autorità belghe?
Il giorno del suo insediamento, nel febbraio del 2012, il capo della polizia federale Catherine De Bolle ha fatto un discorso molto incoraggiante sull’importanza dell’integrità del corpo di polizia. In seguito ha incontrato dei rappresentati della Ldh e ha confermato di volersi occupare di questo tema. Staremo a vedere. Intanto il ministro dell’interno, Joëlle Milquet, ha accusato il nostro sito di alimentare la delazione. È falso, dato che non diamo nessun nome. Ma se tra un anno dovessimo renderci conto che l’osservatorio non funziona e che abbiamo solo una cinquantina di testimonianze, non lo considereremo un campione rappresentativo e non ne trarremo delle statistiche. Il nostro è un esperimento. Vedremo come va.
Nei giorni seguenti con Geneviève ci siamo sentite via email. Abbiamo commentato una buona notizia: un ispettore è stato condannato per violenze e razzismo contro un collega e una persona che stava arrestando. Il risvolto negativo della vicenda sta nel solito “se”: se un poliziotto non avesse deciso, dopo mesi d’indagini, di testimoniare contro il suo ex capo, quest’ultimo l’avrebbe fatta franca. Ho mandato a Geneviève il link a un pezzo che avevo archiviato in un angolo della memoria nel 2009. Racconta la storia di Chris Klim, un ragazzo schizofrenico di 24 anni ucciso con due colpi di arma da fuoco dalla polizia di Vernon, in Canada, il 27 dicembre 2007. Il passaggio che più mi aveva colpito era questo:
La maggior parte dei corsi di laurea richiede quattro anni di studio. Molti diplomi tecnici prevedono programmi di almeno due anni. Ci vuole un anno per diventare cuoco, e sei mesi per diventare poliziotto. Questo fatto deve cambiare. Il lavoro di un poliziotto è estremamente complesso e impegnativo. Gli agenti devono conoscere la legge e le armi, essere psicologi e archivisti, saper guidare in condizioni difficili, avere doti investigative ed essere bravi nelle pubbliche relazioni. Devono avere una certa familiarità con vari temi: intercultura, malattie mentali, Lgbt, prevenzione del suicidio, violenze domestiche. Il loro è un lavoro molto stressante, e devono imparare a elaborare in modo sano questo stress. Sei mesi di formazione? Uno degli agenti coinvolti nella morte di Klim era in servizio da due mesi.
In Gran Bretagna c’è chi ha deciso di usare l’animazione per denunciare una particolare forma di abuso della polizia: l’aggressione e l’arresto di chi fotografa o riprende degli agenti. Il corto di Gemma Atkinson e Fred Grace si chiama Act of terror. A giudicare dalla valanga di commenti sul sito del Guardian, che l’ha segnalato due giorni fa, ha toccato un punto sensibile.
[Act of Terror][11] from [Fat Rat Films][12] on [Vimeo][13].
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: [@ettaspin][14] [11]: http://vimeo.com/60436987 [12]: http://vimeo.com/fatratfilms [13]: http://vimeo.com [14]: https://twitter.com/ettaspin
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