Si sta giustamente alzando un coro di proteste contro “The Mission”, l’atroce programma (definito “il primo reality umanitario”) che dovrebbe andare in onda sulla Rai a partire da novembre. Mi viene il dubbio che sia lo stesso esperto di comunicazione all’origine dei “furgoni razzisti” londinesi ad aver osato l’accostamento campo profughi-Albano Carrisi. Oltre alla Rai, che conferma di non avere in grande stima il suo pubblico, e all’ong Intersos, che si dev’essere tappata occhi, naso e bocca sui mezzi pur di raggiungere il suo fine, al progetto partecipa l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur).
Di recente, sempre in Italia, l’agenzia Onu aveva suscitato un’altra polemica, anche se con un’eco minore. Il 20 giugno il giornalista Fortuna Ekutsu Mambulu, stanco di vedere il termine “rifugiato” associato a immagini di uomini, donne e bambini immancabilmente neri, aveva lanciato una petizione contro il “razzismo comunicativo (spesso subliminale)” dell’Acnur, autore di questo manifesto:
Come scrive Fortuna Ekutsu Mambulu, è lo stesso Acnur a rilevare che “tra il 2011 e il 2012, nella classifica dei rifugiati giunti nei paesi industrializzati occidentali, gli africani vengono dopo gli afgani, i cinesi e i russi”. Ma “le immagini stereotipate e pietose degli africani”, continua il giornalista, servono a “fare breccia nel portafoglio dei tanti possibili donatori”. Gli stessi che dovrebbero mettere mano al portafoglio vedendo Elisabetta Canalis tra i profughi del Sud Sudan.
In questo l’Acnur è una lobby: rappresenta gli interessi di una certa categoria di persone presso il settore pubblico e quello privato, e per difenderli punta anche su strategie di comunicazione (lo stesso vale per le ong del settore - penso al libro * Dignità! Nove scrittori per Medici Senza Frontiere*). Una cosa, però, lo distingue dagli altri gruppi di interesse: il modo in cui identifica chi rappresentare.
In genere è un’operazione abbastanza semplice: la European Women’s Lobby rappresenta gli interessi delle donne nell’Unione europea, Confindustria quelli degli industriali italiani, la NRA quelli dei produttori di armi statunitensi. L’Acnur invece fa riferimento a un insieme di testi giuridici, partendo dalla Convenzione di Ginevra del 1951, per segmentare la macro-categoria dei “migranti” e individuare al suo interno le persone che possono essere considerate “rifugiati”. Come stavano le cose prima del 1951?
In un articolo pubblicato a febbraio (“When refugees stopped being migrants: Movement, labour and humanitarian protection”), la ricercatrice Katy Long ricostruisce le vicende storiche che portarono al momento in cui “i rifugiati smisero di essere migranti”. È una storia appassionante, che parte dalla rivoluzione russa del 1917 (all’origine del primo intervento internazionale in aiuto di un insieme di profughi), passa per l’adozione del passaporto Nansen nel 1922 (che doveva permettere alle persone di viaggiare liberamente verso paesi dove avevano parenti o dove cercare lavoro), prosegue con l’avvio, negli anni trenta, di un sistema di microcredito ante litteram.
All’epoca si pensava che i profughi andassero non assistiti ma aiutati a diventare economicamente indipendenti. La crisi del 1929 e i nazionalismi degli anni trenta paralizzarono il sistema, che fu poi rimesso in discussione dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Europa si trovò a dover gestire tra i venti e i trenta milioni di sfollati. In quel periodo si cominciò a parlare di “veri” rifugiati e prese a delinearsi il modello arrivato fino a noi.
Fu un’evoluzione lenta, condizionata dalla guerra fredda (bisognava assistere chi “fuggiva dal comunismo”, per dirla con Harry Truman), ma resa anche necessaria da un difetto del modello precedente: considerare i profughi dei potenziali lavoratori migranti da reinsediare in altri paesi, spiega Long, portava all’esclusione delle categorie più vulnerabili, “gli anziani, i malati e i disabili”. Per questo l’Acnur, fin dalla sua creazione nel 1950, spinse per un approccio umanitario alla questione dei profughi. A partire dagli anni sessanta, osserva Long, “i ‘rifugiati’ diventarono una categoria burocratica e il settore umanitario cominciò a espandersi”, finendo per negare ai profughi la possibilità di migrare autonomamente.
Nelle sue conclusioni Long riconosce l’importanza del diritto all’asilo nato con la Convenzione di Ginevra (lo definisce una legittima “rivendicazione morale”), che garantisce la protezione immediata di chi è vittima di persecuzioni. Sostiene anche, però, che il modello attuale va superato integrando le lezioni del passato. Oggi la libertà di circolazione è considerata “incompatibile” con l’assistenza umanitaria: “La protezione dei rifugiati è diventata un’attività sedentaria. Ci si aspetta che rimangano in località fisse - i campi dei paesi di prima accoglienza - nell’attesa di un eventuale rimpatrio”. Se potessero, molti di loro tenterebbero la strada della “migrazione, ovvero della circolazione e della ricerca di lavoro”. Invece rimangono bloccati nei campi, a volte per generazioni, e ad alcuni toccherà perfino sentir cantare Albano.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin
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