L’Ue tra Nobel per la pace e guerra ai migranti
Il 27 novembre 1895, firmando il suo testamento, Alfred Nobel doveva immaginare che l’idea di lasciare gran parte della sua fortuna a persone meritevoli ma a lui estranee avrebbe scontentato parecchi. Non fu solo parte della famiglia a inorridire, ma anche l’allora re di Svezia Oscar II, che definì le sue idee assurde e antipatriottiche.
Al termine di una lunga battaglia legale, chi aveva impugnato il suo testamento dovette rassegnarsi. I cinque premi Nobel furono istituiti e quello per la pace sarebbe stato assegnato a chi si fosse più impegnato “per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti, per l’istituzione e la promozione dei congressi di pace”.
Ma la volontà di Nobel, dopo quella vittoria iniziale, fu comunque tradita. Secondo l’avvocato norvegese Fredrik S. Heffermehl, cofondatore del sito The Nobel peace prize watch, tra il 1946 e il 2008 oltre la metà dei premi Nobel per la pace è stata assegnata violando le disposizioni del testamento. Come spiegava Heffermehl in un’intervista del 2014, il premio non era pensato per chi promuove “la ‘pace’ in generale, ma per quegli attivisti e quelle attiviste il cui obiettivo è porre fine al militarismo”.
Una svolta preoccupante
L’Unione europea ha ottenuto il riconoscimento esattamente dieci anni fa, il 12 ottobre 2012, “per aver contribuito alla pace, alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani in Europa”, e anche allora non sono mancate le polemiche. L’assenza di un conflitto tra stati europei, hanno denunciato in molti, non significava che l’Unione europea fosse estranea alla guerra. Diversi governi prendevano parte a conflitti nel quadro della Nato (in Libia e in Afghanistan) o esportavano armi. E tutti appoggiavano l’uso della forza contro quella che era presentata come una pericolosa invasione: uomini, donne, bambine e bambini che desideravano raggiungere il territorio dell’Ue per cercarvi rifugio, trovare lavoro, ricongiungersi con la famiglia, studiare – spesso per più motivi intrecciati. In altre parole, l’Unione europea non stava esattamente operando per combattere il militarismo.
Nel 2012 Frontex, l’agenzia europea incaricata di coordinare e sostenere gli stati membri nella sorveglianza delle frontiere esterne dell’Ue, era operativa da sette anni. All’epoca l’agenzia era poco nota al grande pubblico, ma aveva già una pessima reputazione per via della sua opacità, dell’assenza di meccanismi di controllo del suo operato e del suo ruolo nel rafforzare la criminalizzazione della migrazione. I funzionari impiegati direttamente dall’agenzia, la cui sede centrale è a Varsavia, erano tutti civili, mentre il personale armato sul campo (agenti, guardie costiere e di frontiera) era distaccato dagli stati membri.
Poi, nel 2019, è arrivata la conferma che l’Unione europea non avrebbe dovuto ricevere il premio Nobel per la pace. Con la riforma del regolamento di Frontex adottata quell’anno, l’Ue è entrata in un nuovo capitolo della sua storia: da corpo di funzionari civili, quello delle istituzioni europee è diventato anche un corpo armato. I funzionari di Frontex sono infatti i primi, nella storia del personale delle istituzioni europee, a essere autorizzati a portare delle armi. Motivo di vanto per l’agenzia, questa svolta è estremamente preoccupante.
La militarizzazione dell’Ue è già cominciata con la militarizzazione delle frontiere”, afferma l’eurodeputata Demirel
Entro il 2027 il corpo permanente di Frontex dovrebbe essere formato da diecimila persone, di cui tremila funzionari europei (appartenenti alla cosiddetta categoria 1, o personale statutario) e settemila “agenti distaccati dagli stati membri dell’Ue”. Nel maggio 2022, come si legge in un documento del Consiglio dell’Ue pubblicato da Statewatch, l’agenzia aveva assunto 835 agenti di categoria 1 che finora, a causa di un imprevisto ostacolo giuridico, sembrerebbero disporre solo di armi prese in prestito. Dal 2016, anno di una precedente riforma del suo regolamento, Frontex può acquisire “attrezzature tecniche”. Secondo l’agenzia, “questa categoria comprendeva anche le armi da fuoco”, spiega il ricercatore Matthias Monroy, autore del blog Security architectures in the EU.
Ma Frontex si sbagliava, e la Commissione è stata costretta a intervenire per chiarire a quali condizioni l’agenzia può acquisire, trasportare e immagazzinare armi. Nel frattempo Frontex ha raggiunto un accordo con la Grecia e la Lituania per assicurarsi un rifornimento di armi, senza interrompere i suoi “dialoghi con l’industria” e assegnando comunque, nell’ottobre del 2021, un contratto da 3,76 milioni di euro all’azienda austriaca Glock per la fornitura di “pistole semiautomatiche, munizioni e accessori”.
“Molte di queste cose le sappiamo solo perché sono state fatte le domande giuste”, osserva Monroy, riferendosi in particolare alle interrogazioni parlamentari presentate dall’eurodeputata tedesca Özlem Demirel (Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica), che commenta: “Osserviamo la stessa tendenza nella politica di difesa europea, con il progetto di creare un esercito europeo. Non si tratta di una forza permanente che nascerà domani, ma dobbiamo criticare gli sviluppi verso questo obiettivo. La militarizzazione dell’Unione europea è già cominciata con la militarizzazione delle frontiere”.
E questa militarizzazione si estende ormai ben oltre le frontiere dell’Ue. Dal 2019 Frontex può infatti concludere accordi di cooperazione anche con paesi terzi non confinanti con il territorio dell’Ue, garantendo inoltre un’immunità rafforzata ai suoi agenti (la ricercatrice Martina Previatello ha pubblicato un’analisi dettagliata di questo nuovo tipo di accordi). Funzionari europei armati possono ormai essere dispiegati, dentro e fuori il territorio dell’Ue, per “proteggere le frontiere europee”, usando la forza per bloccare, intercettare, respingere o rimpatriare potenziali richiedenti asilo colpevoli di aver tentato di raggiungere l’Unione europea in modo “irregolare” – l’unico modo a loro disposizione.
Più poteri e autonomia
E a chi dovranno rendere conto del loro operato? Unicamente al loro superiore, il direttore esecutivo di Frontex, che gode di un’autonomia assoluta. “Quest’ultimo”, osserva Monroy, “può essere rimosso dal consiglio di amministrazione di Frontex”, che comprende rappresentanti della Commissione e degli stati membri, “ma sul piano operativo nessuno può dire a Frontex cosa fare”. Del resto lo stesso consiglio di amministrazione ha approvato, nel gennaio 2021, la creazione di un comitato sull’uso della forza da parte degli agenti di categoria 1, comitato che non solo è unicamente consultivo, ma che dovrebbe essere formato da persone scelte dal direttore esecutivo di Frontex.
“Il problema principale è quello del controllo democratico”, sottolinea Monroy, ricordando che con il trattato di Lisbona le agenzie, come il resto delle istituzioni europee, hanno acquisito più poteri e più autonomia: “Ma quando la decisione è stata presa, nessuno immaginava che, dieci anni dopo l’entrata in vigore del trattato, Frontex sarebbe stata armata. Ormai non si può tornare indietro. L’Unione europea ha deciso di prendere questa direzione, e Frontex ha aperto la strada”.
Nel 1893 Alfred Nobel scriveva all’amica Bertha Von Suttner, scrittrice e pacifista austriaca (di cui Prospero Editore ha da poco ripubblicato Abbasso le armi!): “Vorrei disporre di una parte della mia fortuna per istituire un premio da assegnare ogni cinque anni – diciamo sei volte, perché se tra trent’anni non saranno riusciti a riformare il sistema attuale, ricadranno infallibilmente nella barbarie. Il premio dovrebbe essere assegnato a colui o colei che ha fatto fare all’Europa i più lunghi passi avanti verso un’idea di pacificazione generale”.
Alfred Nobel è morto nel 1896, Bertha von Suttner nel 1914. L’Europa è ricaduta nella barbarie prima di quanto avesse previsto Nobel, e vi è risprofondata durante la seconda guerra mondiale. Che il progetto europeo sia originato dalla volontà di garantire la pace nel continente, è certo. Ma a quale prezzo? Nel loro libro Eurafrica: the untold history of european integration and colonialism (Bloomsbury 2014), gli storici Peo Hansen e Stefan Jonsson tornano sul “passato che l’Europa ha dimenticato”, quella dimensione colonialista del progetto europeo che tanto spiega della brutalità con cui da decenni l’Ue rifiuta di aprirsi a una parte del mondo.
L’Unione europea non meritava il premio Nobel per la pace nel 2012, e meno che mai lo merita ora che ha cominciato ad armare parte del suo personale per tenere alla larga dei civili che andrebbero accolti. Una “cerimonia di destituzione” è stata annunciata per dicembre, a Bruxelles, dall’organizzazione pacifista belga Agir pour la paix e dalla campagna internazionale Abolish Frontex. Alfred e Bertha apprezzerebbero.