La delusione di Gus Van Sant
The sea of trees
La rivelazione Maryland di Alice Winocour era nella sezione Un certain regard, ma il concorso finora è un po’ debole, con film medi (o al massimo medio-alti) come Umimachi diary (il titolo internazionale è Our little sister) di Hirokazu Kore-eda o Louder than bombs di Joachim Trier. Le eccezioni finora sono Mia madre di Nanni Moretti (che per noi italiani però non è una sorpresa) e Carol di Todd Haynes, amico personale e fratello spirituale di Gus Van Sant, il cui The sea of trees è forse la delusione più grande, anche in confronto al Racconto dei racconti di Matteo Garrone.
Il film di Van Sant, che sembra come sempre ispirarsi al cinema di Michelangelo Antonioni, ibrida in maniera curiosa il cinema del regista dell’Avventura e di Zabriskie point con il Giappone, in termini di ambientazione, tematiche e riferimenti cinematografici: vengono in mente altri registi presenti spesso qui a Cannes, compresa la selezione di quest’anno, soprattutto Naomi Kawase (presente in Un certain regard con Ha) e il già citato Kore-eda (Distance, 2001).
È tanto più curioso che fallisca se si considera che proprio nel cinema d’autore dell’estremo oriente troviamo le filiazioni spirituali più interessanti di Antonioni, a cominciare da tre pesi massimi come il taiwanese Hou Hsiao-Hsien (classe 1947), il cinese continentale Jia Zhangke (classe 1970) e il tailandese Apichatpong Weerasethakul (classe 1970): i primi due sono presenti in concorso con i loro nuovi film (The assassin il primo, Mountains may depart il secondo) mentre il terzo lo troviamo in Un certain regard (Cemetery of splendour).
Siamo lontani sia dai film sperimentali e indipendenti di Van Sant, a cominciare dal misconosciuto ma geniale Gerry (2002) che aprì la trilogia seguita da Elephant (2003) e Last days (2005), sia dai film hollywoodiani del regista, come Will Hunting – Genio ribelle (1997) e Scoprendo Forrester (2000), meno arditi e personali ma più coerenti.
La trilogia fondata sull’impossibilità radicale di cogliere una linea d’orizzonte, quindi il futuro, trilogia che peraltro si concludeva con la constatazione dell’inevitabilità del suicidio con Last days (ispirato alla vicenda reale del musicista rock Kurt Cobain), troverebbe qui, in teoria, un proseguimento e un compimento, fatto di complementarietà e opposizione assieme.
Racconta la storia di un occidentale (Matthew McConaughey, ottimo) che, persa la moglie appena guarita da un tumore in un incidente automobilistico, si reca in Giappone nella foresta situata ai piedi del monte Fuji chiamata “il mare d’alberi” (the sea of trees, appunto), da lui scoperta su internet, dove in maniera relativamente controllata ogni anno circa un centinaio di giapponesi si reca per togliersi la vita.
L’uomo occidentale incontra in quella foresta un uomo orientale a cui si legherà in maniera intimamente spirituale e che, miracolosamente, parla inglese (interpretato da un veterano delle coproduzioni nippo-occidentali, Ken Watanabe). Di questo amico-fratello resterà non uno scheletro, ma un fiore.
Il tema di un’entità sovrastante e giudicante, leitmotiv sotterraneo ma pervasivo nel cinema dell’autore di Belli e dannati, in teoria avrebbe qui l’occasione per fondersi con il suo opposto, la spiritualità panteista orientale, tanto più che non mancano leitmotiv visivi chiaramente simbolici che possono ben coniugarsi con entrambe le sponde spirituali: se in Gerry avevamo il mare di sabbia del deserto, qui abbiamo appunto il mare d’alberi; se lì avevamo un lavoro sulle pietre rocciose dalla connotazione metafisica che ricordava Antonioni e certa arte contemporanea, qui abbiamo pietre laviche che sembrano scolpire il paesaggio, anche grazie al senso dello spazio di Van Sant, talento che il regista condivide con artisti della videoarte e delle installazioni, e con molti cineasti orientali.
In The sea of trees sono pochi i momenti in cui l’incontro tra oriente e occidente sembra fiorire, ma si spengono velocemente, tra spiritualità a buon mercato e dialoghi quasi imbarazzanti. Rimangono attimi brevi, proprio quanto sono esili gli steli di un fiore.