Tra i titoli presentati qui a Locarno, L’infinita fabbrica del duomo di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (sezione Signs of life), seguito alla nostra esplorazione su film dei mondi perduti, è un perfetto esempio di quel che viene chiamato documentario di poesia. Proprio come nel caso di Bella e perduta di Pietro Marcello, in verità più fiction che documentario, e unico, splendido film italiano in concorso, di cui parleremo nel prossimo articolo da Locarno.
Tuttavia, pur inseguendo l’infinito, l’opera di D’Anolfi e Parenti documenta eccome. Poiché la ricerca metafisica, la costruzione (è la parola giusta), è fatta anche di prosaicità. E di materia.
È bene ricordare che il termine artigiano contiene la parola arte
Siamo di fronte a un film sperimentale, ma piacevole e molto suggestivo, che prova a riattivare con metodi moderni un approccio antico: la ricerca dell’astrazione mediante quel che vi è di più materico, anzi di pesante, se non di pesantissimo, cioè il duomo di Milano.
La cattedrale è certo il paradigma del tentativo di raggiungere l’elevazione mediante quel che c’è di maggiormente antitetico: la materia pesante, la pietra. La fabbrica di manutenzione del duomo è il vero argomento – o, meglio, il pretesto – del film, che la mostra nelle sue grandi proporzioni e nelle varie fasi del lavoro: l’estrazione del marmo, i marmisti al cantiere, l’archivio storico e il duomo stesso.
Attraverso queste fasi si scoprono i tanti professionisti specializzati, le formiche-artigiane (forse è bene ricordare che il termine artigiano contiene la parola arte) che consentono con pazienza certosina questa manutenzione: marmisti e muratori, carpentieri e fabbri, restauratori e orafi.
È un viaggio verso l’elevazione in senso astratto e letterale: splendida la parte finale che filma da vicino le vetrate del duomo dense di icone inserite con perfetto senso dello spazio. Emerge un potenziale quasi psichedelico, molto moderno, che lascia però lo spazio per la luce dell’illuminazione (ancora, in senso sia letterale sia figurato) e per la figurazione anche se altamente simbolica.
Il momento culminante è dato dal movimento ascendente della telecamera, quando il duomo è ripreso dall’esterno e dall’alto: la città scompare e all’occhio umano si offre la visione di una sinfonia architettonica, espressione finale e perfetta di come l’astrazione, la metafisica, il sentimento di elevazione siano conseguiti attraverso la pesantezza di materiali massicci, del marmo, della roccia e, per estensione, della terra su cui camminiamo e di cui siamo figli malgrado i maltrattamenti a cui la sottoponiamo quotidianamente.
Un mondo non ancora perduto
Il film esprime un’epifania di amore verso l’uomo e la natura, verso il “creato” per usare un termine in sintonia con il luogo, malgrado si vedano tante rocce, e i molti esseri umani – umili ma degni, che lavorano al mantenimento di questa elevazione (e alla permanenza di questo sentimento, sempre più messo a repentaglio) – non siano praticamente mai ripresi di fronte, come a voler sottolineare il lavoro collettivo volto a mantenere inalterati la forza dei volti delle statue che costoro restaurano o ricostruiscono, volti, questi sì, ripresi in primo piano o comunque da vicino, come era pratica comune con il cinema muto.
E infatti il film racconta solo con immagini e didascalie su fondo nero, proprio come nel cinema muto. A cui si aggiunge il suono, in una perfetta integrazione dell’antico con il moderno.
Il film è il primo segmento di una quadrilogia – denominata Spira Mirabilis – che vuole esplorare il concetto dell’immortalità per mezzo degli elementi della natura. I due autori hanno ricevuto riconoscimenti a livello internazionale, dall’Europa agli Stati Uniti, per i loro i lavori, in particolare per Il castello (2011) e Materia oscura (2013). Il loro approccio s’integra qui ancora una volta perfettamente con le musiche e con il lavoro notevole di Massimo Mariani, compositore e sound designer volto a suggerire l’infinito documentando una prosaica lavorazione infinita. Due antitesi appunto. E la rivelazione di un mondo (per ora) non ancora perduto.
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