Dopo l’affresco storico di una metropoli (presa a paradigma di un’intera nazione) con Bombay velvet, oggi tocca a Thithi di Raam Reddy (Cineasti del presente). Un film sul popolo, sul suo modus vivendi fondato sul caos, duro e gioioso assieme, e del popolo, cioè prossimo al cinema popolare indiano, soprattutto quello precedente agli ottanta, ancora impregnato di neorealismo e che parlava in maniera umana di dolori e ingiustizie.

Ma è anche opera pienamente autoriale, con un’analisi potente dei meccanismi umani e sociali fotografati con grande precisione nel movimento della vita.

È chiaro, per chi conosce un po’ il grande cinema di quel vasto paese, che il giovane esordiente Raam Reddy (autore di due corti, di cui uno pluripremiato, e nel 2011 di un romanzo, It’s raining in Maya, e anche fotografo) ha seguito la lezione di maestri come Ritwik Ghatak e Satyajit Ray (un gigante del cinema del novecento) che diedero voce al mondo rurale, ai contadini, a chi rimaneva ai margini delle trasformazioni della società e del cosiddetto progresso, che troppo spesso veicola regressioni, se non è controllato.

Thithi è ambientato nell’India del sud, e rappresenta quattro generazioni, quindi quattro momenti storici e assieme quattro momenti della vita: la giovinezza, rappresentata dal più giovane protagonista, Abhi, sempre a caccia di belle ragazze, la maturità (o presunta tale) dal padre di Abhi, Thamanna, la vecchiaia e la saggezza (o, anche qui, presunta tale) da Gadappa, il fratello anziano di Thamanna, e infine la morte, o negazione della vita e del suo tumulto, rappresentata dalla figura di Century Gowda, il bisnonno centenario appena scomparso.

È la metafora di un’India che invece di progredire nell’emancipazione dall’età coloniale, sembra regredire

Tutti, a ben vedere, sono qui padri e figli, con le tensioni che ne conseguono.

La parabola emerge ben presto, poiché nessuno sembra aver mai raggiunto la maturità e/o la saggezza, metafora di un’India che invece di progredire nell’emancipazione dall’età coloniale, sembra regredire (ma questo è abbastanza vero anche per i paesi occidentali).

Materialismo e senso della vita

Thithi è però anche una parabola, ma immersa nel quotidiano più concitato e prosaico, quindi privo di allegorie mitiche o affabulazione poetica, sulle passioni umane universali anche se molto attento e realistico nel riprodurre situazioni specifiche al mondo rurale indiano, o quantomeno a quella parte dell’India.

Il fratello minore Thamanna cerca di vendere illegalmente a degli uomini d’affari (che si rivelano però più onesti di Thamanna) alcuni acri di terreno appartenuti al bisnonno, ma il maggiore, Gadappa gli è d’intralcio. Gadappa sembra interessato al fluttuare della vita come piacere della vita, senso della vita, essenza della vita: e allora scompare, vagabonda, fuma e beve brandy. Insomma, è l’antitesi del materialista Thamanna. Ma nulla è meccanico, tutto è naturale, al pari della naturalezza del fluire della vita. Il rituale funebre di Century Gowda del finale, splendido, gioioso e magico, e ovviamente popolare, pare una festa di vita o della vita. Perché nella tradizione gioiosa, identitaria, ma non ossessiva o fondamentalista, tutte le tensioni sembrano sciogliersi.

E di questa mescolanza di commedia, neorealismo (indiano) e interrogazione morale, allo spettatore resta il dispiacere di separarsi da questi personaggi e il desiderio di vederli ancora. Poiché in fondo essi sono la vita.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it