Behemoth è il Leone d’oro mancato. E di conseguenza è un’interrogazione mancata, per il pubblico, sulla Cina e il suo ruolo – paese spesso preso a paradigma, nell’economia mondiale – attraverso lo strumento del documentario combinato alla forza poetica dell’arte.
Davvero un gran peccato. Quanto scritto da Lee Marshall qualche giorno fa, e cioè che si profilava il Leone d’oro per il bellissimo documentario d’autore di Zhao Liang, era tutt’altro che peregrino, e Marshall scrive anche per una testata, Screen International, tra le più corteggiate dalla produzione e dai festival, quindi ha accesso a fonti di rilievo.
Del resto risultava anche al sottoscritto il giorno stesso della premiazione: assieme all’ottimo Abluka (Frenzy) di Emin Alper (Premio speciale della giuria), regista turco al suo secondo film, a Valeria Golino (Coppa Volpi per la miglior attrice) per la sua interpretazione in Per amor vostro di Giuseppe Gaudino, e infine Desde allá del venezuelano esordiente Lorenzo Vigas (Leone d’oro), si diceva che Behemoth avrebbe avuto, appunto, il Leone d’oro.
Uscito all’ultimo momento dal Palmarés per ragioni misteriose, non ha ricevuto nulla: forse, poiché era candidato al premio più importante, poteva aver senso, al massimo, l’assegnazione del secondo premio, il Leone d’argento della giuria, andato invece a El clan dell’argentino Pablo Trapero.
Trapero propone un cinema formattato, con la pretesa di essere d’autore e impegnato
Il film di Trapero sembra essere entrato in lizza solo in seconda battuta ai “piani alti” dei premi. Ci è piaciuto e ci ha appassionati, al momento della visione. Anzi, ci ha indignati nel profondo.
Questa storia di rapimenti famigliari, che verosimilmente ha dietro gli uomini della dittatura e forse alcuni potentati economici rimasti nell’ombra (e dunque tutt’ora impuniti) è certo portatrice di un’importante e coraggiosa denuncia, ed è altrettanto importante per noi conoscere queste vicende, soprattutto in questo periodo di instabilità dei valori democratici.
Ma El clan, come tutti gli ultimi film di Trapero, rispetto alle sue notevoli opere degli inizi, non innova nulla, non fa ricerca, e non propone nemmeno del grande classicismo ispirato, tutt’al più del buon cinema televisivo, anzi, a momenti flirta con la terribile tendenza della tv verità (come se esistesse una verità ovvia, plateale).
Un cinema formattato, che ha la postura del grande cinema d’autore impegnato, ma in realtà è impostura. Parziale o totale, non si può dire con certezza. Inoltre, trattando temi così gravi, la liceità di trattare tematiche tanto gravi spettacolarizzando tutto, sembra veicolare sempre più l’idea di un cinema latinoamericano che ammantandosi di nobili cause sociali e politiche, in realtà risulta cinico, furbo e ambizioso solo nel cercare il successo.
Alla cifra stilistica di Trapero, quindi, preferiamo nettamente quella del cileno Pablo Larrain. Non è il cinema di genere che esplora il sociale e il politico, come quello statunitense, è il film politico-sociale che si fa film di genere, o meglio, che usa i suoi codici. Con tutte le ambiguità del caso.
Il trailer di Desde allá di Lorenzo Vigas
Behemoth, senza essere un capolavoro, è invece un grande film, forte e originale, che ibridando le forme dalla memoria del cinema, e non solo, fa uscire qualcosa di nuovo e potente, malgrado le influenze varie (a cominciare da quella di Wang Bing, nuovo maestro del cinema cinese).
Soprattutto era un’occasione unica di far conoscere al pubblico le potenzialità di un documentario d’autore, in cui è il punto di vista di un’individualità a esprimersi (e non la ricerca oggettiva di tutti i punti di vista come nel documentario giornalistico), in cui la poesia condensa al meglio certe espressioni, e che al tempo stesso ci documenta, ma seguendo una sua visione.
Inoltre, Behemoth coglie e condensa perfettamente questioni gravi della società cinese, e di valenza universale: lo sfruttamento crescente dei lavoratori che si salda con lo sfruttamento altrettanto folle dell’ambiente, e, infine, con una cementificazione altrettanto folle.
E con l’incredibile finale tra i palazzi giganteschi della città fantasma (ma perfettamente mantenuta dagli spazzini) suggerisce interrogativi inquietanti sulla realtà della Cina e dei cinesi: se ci sono centinaia di città fantasma come dice il film, allora quanto è drogata la crescita cinese? È presumibile, vista anche l’enormità e l’insensatezza di queste metropoli vuote, che anche altre magagne siano nascoste agli occidentali. Qual è il prezzo umano? E quanto potrà durare tutto questo?
Nessuna crescita economica, per sua natura legata al contingente, può durare all’infinito. Un altro grande del cinema contemporaneo, Jia Zhang-ke (Leone d’oro nel 2006 con Still life), che ha dei parenti tra gli stessi operai, affermava che in certe zone dove sono stati effettuati trasferimenti forzati di massa della popolazione a fini industriali c’è stato fino a un milione di suicidi tra gli operai, una cifra spaventosa anche per un paese popoloso come la Cina.
Ma allora è questo il modello cinese? Non siamo poi troppo lontani, quanto meno sotto questi aspetti, da Mao Zedong con le deportazioni di massa e da Stalin con la collettivizzazione dell’agricoltura imposta con violenza ai contadini.
Il film ci offre la perfetta misura di cosa accade quando si unisce il peggio del comunismo con il peggio del capitalismo, come del resto si è spesso detto per la Cina. Ed è quindi di grande attualità e profondità, poetica, simbolica e storica. E se la prima parte è un po’ didattica, quindi didascalica, è vero che si avverte forte l’urgenza di comunicare certi dati, cercando di coniugare così il documentario d’autore che si scioglie nel documentario di poesia, con il documentario di reportage, con piccoli tocchi scelti con maestria.
Per Desde allá sarebbe bastato il Leone d’argento, che è un premio alla regia
Il film vincitore del Leone d’oro, il venezuelano Desde allá, nelle intenzioni del suo regista, l’esordiente Lorenzo Vigas, è il primo capitolo di una trilogia sulla paternità. Gli auguriamo di crescere ancora di più con i prossimi lavori, dopo questa prima prova di qualità e originale (come ha detto la gran parte della critica), che affronta il tema del padre da un’angolazione forte e inattesa.
Tuttavia, il Leone d’oro è fuori posto per questo film, di cui però consigliamo la visione. Sarebbe bastato il Leone d’argento, poiché è un premio alla regia e Desde allá è davvero un film di regia. Ma anche il gran premio della giuria sarebbe stato appropriato, e del resto Vigas pare che sia persona sobria, di una certa modestia.
Il pericolo è che il pubblico consideri esagerato questo premio, e finisca quindi per nuocergli creando un’attesa eccessiva nei suoi confronti. Speriamo di no.
Ma perché nulla a Laurie Anderson, protagonista del notevole Heart of a sog, e soprattutto perché nulla allo straordinario Rabin, the last day, del regista israeliano Amos Gitai?
Gitai è un regista un po’ gaglioffo, ma è anche coraggioso e innovativo nelle sue scelte politiche e artistiche, e questo è quanto importa.
Alexander Sokurov che con il suo capolavoro Francofonia licenzia un grande canto poetico, profondo, ma anche ironico e provocatore, sull’arte e la storia, era il candidato naturale al Leone d’oro, ma la giuria probabilmente è rimasta bloccata dal fatto che il regista aveva vinto nel 2011 con Faust, meno convincente di Francofonia.
Un festival che si adagia sulle produzioni della multinazionale Netflix è molto criticabile
Per concludere, qualche riga sulle tendenze generali del cinema selezionato a Venezia, sulle tendenze generali dei festival, e su quello italiano.
La prima settimana è stata funestata da film terribili o medi, a eccezione di Sokurov, e dalla commedia L’hermine di Christian Vincent (premiato per la miglior sceneggiatura e per il miglior attore protagonista, il notevole Fabrice Luchini).
Uno spot lungo un film
Poi, dopo il fine settimana, il concorso ha indubbiamente recuperato. Tuttavia un festival che si adagia sulle produzioni della multinazionale Netflix, presentando film ignobili in concorso come Beasts of no nations, compie un’operazione fortemente criticabile anche quando queste paiono degne, come nel caso del documentario fuori concorso Winter on fire di Evgeny Afineevsky sulle vicende ucraine della rivoluzione a Kiev.
Se poi ancora dà posto, sempre in concorso, a opere come Equals di Drake Doremus, “uno spot lungo un film” verrebbe da dire, soporifera e iperestetizzante variazione distopica, già vista, sul futuro controllato ed esautorato dalle emozioni (Equals finisce per essere esattamente, e tristemente, speculare a quanto denuncia), è lecito porsi qualche domanda.
Perché inserire nel concorso lungometraggi che non sono né di ricerca e d’innovazione dell’arte cinematografica, e nemmeno narrativi, classici o, in compenso, ispirati? Perché inserire l’insipido Looking for Grace di Sue Brooks e il medio Marguerite di Xavier Giannoli? Un vero mistero. Davvero il pubblico li trova belli? E anche se fosse, davvero si appassiona al punto da spostarsi da altre città spendendo soldi per vedere questi film?
Belle cose si sono viste nella sezione Orizzonti, quella che in teoria dovrebbe fornire rivelazioni dalle ultime frontiere, anzi dagli orizzonti nuovi del cinema, in termini anche di ricerca.
Di ricerca, tra i titoli da noi visionati, non si è visto quasi nulla, tranne forse il bel film brasiliano Boi Neon di Gabriel Mascaro, al suo secondo film di fiction dopo Ventos de agosto visto l’anno scorso a Locarno in concorso (e ora nelle sale francesi) e vari documentari, e per il quale rimandiamo a quanto scritto da Lee Marshall.
Erano diversi i film belli, narrativi, spesso non in maniera classica, come l’israeliano e l’iraniano (interessante per l’angolazione narrativa e per la denuncia, ma già più classico), coinvolgente il secondo, più sobrio il primo, ci offrono due straordinari personaggi femminili e uno spaccato acuto, se non accusatorio, dei rispettivi paesi, in particolare sulla condizione delle donne, ma non solo.
C’è la tendenza a realizzare il compitino perfetto del regista sperimentatore
Ma anche in Orizzonti, hanno trovato posto troppi film spesso ovvi, come Taj Mahal del francese Nicolas Saada, ispirato a una storia vera durante l’attacco terroristico all’hotel Taj Mahal di Mumbai, oppure dignitosi, ma che avrebbero potuto trovar posto tranquillamente nel concorso, come lo statunitense, Man down di Dito Montiel, dove la guerra in casa e quella vera si confondono con gli spazi virtuali del videogioco, e in cui gli spazi urbani reali e virtuali, casalinghi ed extracasalinghi, formano un labirinto unico.
C’è poi la tendenza a fare film teorici, anche complessi, ma senza che ricevano il giusto peso la dimensione sensibile o l’espressione dell’inconscio (e sotto questo aspetto, per fare un nome, Stanley Kubrick rimane un modello).
È il caso dell’israeliano Lama Azavtani dell’esordiente Hadar Morag, giovane regista dotata però di una bella mano, e del greco Interruption di Yorgos Zois, anche lui esordiente.
Interruption non è privo di suggestioni, ma chissà perché resta imprigionato dalla scelta, comune a tanto cinema d’autore che cerca di sfuggire alle convenzioni, di essere freddi e poco umani per parlare dei destini umani. Una scelta che può anche essere legittima, ma che qui non convince pienamente, ed è rivelatrice di una tendenza sistematica a realizzare una sorta di “compitino perfetto del cineasta sperimentatore”, o presunto tale.
La ricerca vera l’abbiamo visto poco, e quasi solo nel concorso – Behemoth e Heart of a dog – o fuori concorso, con lo straordinario documentario di Frederick Wiseman In Jackson Heights oppure ottimi film italiani come Non essere cattivo del già rimpianto Caligari oppure lo straordinario Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati di Franco Maresco o ancora L’esercito più piccolo del mondo di Gianfranco Pannone.
Sugli altri numerosi film italiani, in concorso e non, stendiamo un velo pietoso, tranne che per il film di Bellocchio e quello di Gaudino (Per amor vostro, con Valeria Golino, vincitrice della Coppa Volpi femminile), dal 17 settembre in sala, e a cui facciamo i migliori auguri.
Il trailer di Non essere cattivo di Claudio Caligari
Ci sarebbe moltissimo altro da dire, ma per il momento ci fermiamo qui. Certo, non possiamo fare a meno di dire, che anche se non sono mancate le emozioni cinefile alte, strumenti potenti d’interpretazione e interrogazione sul reale, accontentarsi, una malattia italica, non sia bene, visto anche l’andazzo a Cannes (e su questo rimandiamo al testo conclusivo delle cronache del maggio scorso).
Perché potrebbe nascere la tentazione di recarsi solo a Locarno, l’unico festival di rilievo dove quest’anno ci siamo realmente sorpresi, interrogati, emozionati in maniera continuata. E divertiti.
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