American honey è il ritratto di un paese dimenticato
Si chiama Star, nessuno la vede, eppure vuole brillare a tutti costi. Quest’anno, un concorso molto forte non solo per importanza dei nomi (Loach, i Dardenne, Almodóvar, Jarmucsh, Farhadi, Verhoeven, Dolan) ma anche per qualità dei titoli, ci riserva una sorpresa dopo l’altra. Una delle sorprese più belle forse non soltanto del concorso ma dell’intero festival è dovuta alla regista britannica Andrea Arnold, che con American honey, il suo quarto film, ci offre un’originale riflessione sulla contemporaneità.
Star è una delle tante adolescenti che proviene da una delle famiglie disfunzionali che crescono ai margini della società statunitense. La interpreta una straordinaria giovane attrice, Sasha Lane, esuberante e prorompente nell’esprimere il desiderio di vita della protagonista. Disinvolta e delicata, sveglia e sognatrice, Star non vuole essere condannata a vivere come una stella spenta, ma cerca la sua maniera di risplendere nel cielo. Adocchia un gruppetto di giovani, gioiosi e divertenti, che giocano alle piccole star spostandosi su una sorta di minibus. Sedotta da Jack, il loro leader (Shia Labeouf), si unisce alla compagnia senza pensarci due volte. Potrà sembrare cinico, ma per lei è la possibilità di cominciare una speranza di vita, lontana dall’Oklahoma.
Una scena da American honey
Viaggio in America
Non è oro tutto quel che luccica: tutto il gruppo, Jack compreso, è dominato da Krystal (Riley Keough), una bionda dalla bellezza fredda che si sposta su un’auto sportiva. A lei tutti, Jack compreso, portano i proventi della giornata. In termini di sfruttamento non siamo molto lontani dal gruppetto di ragazzi usati da Fagin in Oliver Twist. Occupano temporaneamente case vuote, e vanno in cerca di lettori a cui vendere abbonamenti a ogni tipo di rivista, dal porno alla pesca. L’attività, rispetto al romanzo di Dickens, è senz’altro legale, ma sulle modalità ci sarebbe da discutere. Il film infatti è ispirato da un’inchiesta del New York Times che denunciava questo tipo di sfruttamento.
Lo spettatore è trascinato on the road. Ma i paesaggi e i grandi spazi, cosi tipici della mitologia di questo tipo di viaggio, sono sostanzialmente lasciati fuori campo: all’America dei villini della classe medio-alta, magari obnubilata dalla destra fondamentalista, succede più spesso ancora quella suburbana, le aree di parcheggio dei grandi camion, gli impianti petroliferi. La fauna umana incontrata, in genere maschile, è varia, talvolta degna, talvolta meno, nessuno è ignobile veramente.
Filmato camera a spalla con un ritmo irrefrenabile ma non faticoso, accompagnato da una straordinaria colonna sonora dominante ma non fastidiosa (Arnold sa usare molto bene anche le pause, o forse sarebbe meglio dire le stasi, i silenzi), questo ritratto dell’America dimenticata appassiona dall’inizio alla fine.
Una ricerca di vita, una bellezza colta nel suo movimento in quanto tale, al fine di sottrarsi alla sporcizia, alla palude, alla bidonville non dichiarata. Star come tutti cerca l’amore, ma quando capita in una casa di bambini chiassosi e adorabili e poi vede la loro madre sdraiata sul divano con accanto una siringa, si rende conto di esser tornata alla casella di partenza, e fugge via. Per riprendere la sua ricerca dell’amore. Con Jack o senza.