L’ottimo lavoro del direttore della Mostra del cinema di Venezia, Alberto Barbera, deciso a far affluire al Lido molti film statunitensi (una vera sfida vista la concorrenza non solo di Cannes ma del sempre più agguerrito festival di Toronto), ha avuto il suo riconoscimento attraverso il premio a Emma Stone, protagonista dell’eccellente La La Land di David Chazelle, film popolare con dietro un autore vero.
E di converso, la Mostra ottiene il massimo a cui poteva ambire: un presidente di giuria statunitense, Sam Mendes, premia il coraggio d’inserire in concorso un grande regista che torna a Venezia, festival che ne rivelò il talento tra il 2007 e il 2008, e che ora ha la possibilità di una consacrazione internazionale. I suoi film da tempo trovano distribuzione all’estero. Perché non in Italia, dove in realtà c’è un fermento e un nuovo interesse verso le forme più innovative del cinema? Basta pensare al buon riscontro del trittico Le Mille e una notte di Miguel Gomes.
Il compromesso è inevitabile nel comporre un concorso come quello veneziano. Ma anche se l’eterogeneità è un pregio, la selezione è sembrata ancora un po’ confusa. Un problema comune ad altre grandi manifestazioni, che all’ultimo festival di Cannes è stato risolto con un bell’equilibrio tra registi affermati, autori fortemente innovativi e opere più sperimentali.
Con la presenza del documentario, che Barbera ha sistematizzato, quest’anno la presenza del cinema sperimentale è stata doppia: il documentario italiano Spira Mirabilis, non del tutto riuscito ma comunque notevole, e appunto il film di Lav Diaz. Bisognerebbe anche selezionare meglio i titoli angloamericani.
In generale l’alchimia di una selezione è molto delicata: chi scrive ama l’eclettismo e parlar male di un film rappresenta un piccolo lutto più che un piacere. Sono stati troppi però i film per i gusti di nonna Abelarda (Une vie, The light between oceans, Les beaux jours d’Aranjuez), troppo pochi i film angloamericani convincenti, e troppi film dei grandi della vecchia guardia (Wenders, Končalovskij, Kusturica) che così grandi non sono più. Serve una fisionomia più precisa, forte, rigorosa. Si può anche fare un classicismo ispirato e non banale che ha possibilità d’integrarsi meglio con un il resto della selezione. La La Land di Chazelle o Frantz di Ozon, anche se quest’ultimo venato di sperimentazione, sono due buoni esempi.
Sul Leone d’oro
Ang babaeng humayo (The woman who left) di Lav Diaz è un’opera d’eccezione, la perla di questo festival, un vero capolavoro, addirittura innovativo rispetto ai film precedenti del prolifico artista filippino (due anni fa era a Locarno, dove vinse il Pardo d’oro con From what is before, quest’anno era a Berlino con A Lullaby to the sorrowful mystery, dove ha egualmente ottenuto un premio). Diaz tiene alto lo stendardo della ormai lunga storia del cinema d’autore filippino.
Più le tre ore e quarantacinque minuti di durata del film progredivano (anche se avrebbe avuto più senso una collocazione più centrale nella programmazione del festival e non durante gli ultimi giorni) più l’empatia nei suoi riguardi cresceva. Non è forse un grandioso affresco di una nazione in declino, dell’apocalisse di un paese lungo l’intera sua storia come invece From what is before, ma è comunque una fedele panoramica di una nazione perduta, che parte però da una dimensione intima, e non corale, e di grande umanità. Diaz lavora benissimo anche con il colore, ma il bianco e nero riesce a creare una dimensione ipnotica e onirica avvolgente grazie a chiaroscuri dalla composizione elegante.
Siamo nel 1997. Apparentemente non si è trattato di un anno terribile per le Filippine e gli echi che arrivano dall’occidente (la morte di Lady Diana e di Madre Teresa di Calcutta, l’assassinio di Versace), grazie a un’ironia sottile e mai troppo esplicita, assumono una connotazione risibile. Siamo in un limbo-inferno, dove l’eccezionalità delle Filippine è proprio la normalità dell’Apocalisse come condizione perpetua. E assurge un po’ a metafora del perpetuarsi della condizione di miseria dell’intero mondo povero, che qui da noi è vista ormai come qualcosa di normale. Da questa prospettiva l’occidente sembra una principessina fragilissima, specie ora che deve confrontarsi con situazioni più dure e serie, espressioni della frustrazione del mondo esterno, quello povero.
The woman who left è un film binario, impostato sulla dualità: la donna, uscita di prigione dopo aver scontato una condannata ingiusta, è come un uomo in un corpo di donna; il travestito che prende sotto la sua protezione, violentato e picchiato, è una donna in un uomo. Entrambi esprimono una verità e un’intensità degna dei personaggi di certo cinema degli anni sessanta e settanta. I pochi momenti diurni, di luce, sono quelli in chiesa, un’istituzione che appare condannata allo sfruttamento feudale della colpa verso le masse, al nulla spirituale e asservita all’oscurità dei gangster, altri padroni feudali d’intere aree del paese. Tutto avviene di notte, perché la notte, se si ha l’occhio per vedere, è degli ultimi e gli ultimi sono misteriosi: veri e propri scrigni magici pieni di sorprese malgrado il dolore da cui sono pervasi.
Tutto è ambiguo, ma poiché tutti i valori sono rovesciati questo è il mondo dei giusti. Opposizioni e contrasti sono restituiti da Diaz senza facili meccanicità, contrariamente a tanto cinema contemporaneo: è un flusso di coscienza, dove la coscienza è quella di un’intera umanità anch’essa sul punto di dissolversi, qui come ritrovata dal regista grazie alla sua capacità unica di soffermarsi sulla dimensione intima.
Alla fine della visione, dove gli esterni sembrano degli interni (predominanti lungo tutto il film) e le case di legno degli umili che coabitano con quelle in cemento, spesso molto lussuose ma fuori campo, dei ricchi (banditi) una volta buttate giù sembrano una scenografia teatrale che viene tolta di mezzo perché lo spettacolo è finito. Il mistero di quella rappresentazione allestita in pochi ambienti si dissolve tra le urla delle proteste di chi perde l’abitazione: la rappresentazione è finita e si torna alla triste e grigia realtà sociale.
Sui film del palmarès
Se è una meraviglia il Leone d’oro all’opera del filippino Lav Diaz, il Gran premio della giuria andato al film di Tom Ford lascia perplessi: Nocturnal animals ha la raffinatezza dello stilista ma non ha, o quantomeno non ancora, quella del regista sciamano (Kubrick, Lynch) che vede “oltre” l’immagine puramente estetica.
Il film è pieno di grossolanità non realmente provocatorie, di metafore telefonate, ridondanti e dalle quali non prende una distanza ironica. Eppure ci sembra nettamente migliore rispetto a A single man, l’anemico film d’esordio presentato a Venezia nel 2009. L’algido mondo della moda vive nella sua raffinata bolla, il mondo sudicio, però, esiste e ti può raggiungere.
In fondo Ford parla di noi tutti, che viviamo un po’ troppo in una bolla di lusso rispetto alle tragedie crescenti nel mondo. L’idea non è sviluppata con sufficiente forza e non si dirama a sufficienza in sottopercorsi. Anche perché il mondo sudicio è filmato con deserti da cartolina pubblicitaria, abbandonando la classe dello stilista. La forma sabota il contenuto.
Stesso discorso per Paradise di Andrej Končalovskij e solo in parte per La région salvaje di Amat Escalante (ex aequo con il premio per la miglior regia, sempre Leone d’argento ). Escalante è un bravo regista e coglie sempre con occhio quasi chirurgico quello che si agita nella società messicana. Secondo Isabelle Régnier su Le Monde, Escalante tenta un’allegoria surrealista che non manca di forza e molteplici letture: il film è effettivamente interessante, sorprende in alcuni punti e credo che in Italia abbia ricevuto critiche eccessive. Ma l’innesto del mostro mutante, quasi da tardo Cronenberg, all’interno di un registro realista e naturalistico non ci pare convincente: l’ibridazione è operazione interessante ma delicata. Ciascuno dei due registri finisce per sabotare l’altro, almeno in parte.
Freddo, ma di una freddezza algida perché la freddezza può essere anche potente (per esempio: Kubrick), retorico e spesso scontato è invece il film del discontinuo Andrej Končalovskij: malgrado alcuni momenti ispirati (come le ombre che escono nella nebbia del bosco o il ricordo-sogno dei giovani hitleriani in una terrazza) Paradise dice poco che non si sappia sul dramma epocale dell’Olocausto anche se nell’Europa dell’est questo è meno vero. Il bianco e nero è certo effetto di un importante lavoro tecnico ma appare privo di profondità. E poi questo paradiso-inferno rappresentato come un interrogatorio del Comintern è stucchevole e fa anche un po’ ridere.
Con Frantz, un film di fantasmi che amano disperatamente la vita che ci ha accompagnati per l’intero festival, François Ozon si mette davvero nella pelle del nemico. E di questi tempi, soprattutto in Francia, non è facile una provocazione, o anche solo un pensiero, di questo genere. Non sappiamo quali fossero le intenzioni reali del regista, ma al di là delle dichiarazioni ufficiali, ci pare impossibile che non ci abbia pensato nel realizzare il film.
Del mèlo di Ernst Lubitsch Broken lullaby (L’uomo che ho ucciso, 1932, a sua volta adattamento della pièce pacifista di Maurice Rostand) Ozon riprende diverse scene, ma sposta il baricentro in favore della Germania perdente focalizzandosi sul punto di vista della protagonista femminile. È un capolavoro di provocazione, celata da una poesia empatica e struggente, e un capolavoro di crudeltà avvolta nella dolcezza con improvvisi squarci di un colore delicatamente pittorico.
A un dato momento i due innamorati non dichiarati sono ripresi insieme, quasi in primo piano: in realtà i loro volti sono obliqui, praticamente visti di tre quarti. Pare un’immagine stilizzata, soprattutto per quanto riguarda il protagonista maschile, uscita dritta dai disegni stilizzati di Picasso. E in quell’epoca terribile s’imponeva infatti il cubismo.
Peccato che il regista non l’abbia amplificata, vista la sua potenza e originalità, ma ci pare paradigmatica per un film dall’onirismo allusivo perfettamente ozoniano, di riflessi molteplici nello specchio dell’amour fou sia etero sia (più sottilmente) omoerotico, di bugie e manipolazioni continue, dove il confine tra vero e falso, bene e male, direzioni ingannevoli e corrette pare totalmente indefinibile. Ben definite invece le interpretazioni quasi sublimi di Pierre Niney e Paula Beer: il premio a quest’ultima per il talento interpretativo emergente è pienamente meritato, anche se forse avrebbe meritato già la coppa Volpi (andata invece a Emma Stone).
Perfetto anche il premio per la migliore interpretazione maschile a Oscar Martinez, che rappresenta una figura di scrittore e intellettuale con straordinaria naturalezza e verità nell’argentino El ciudadano ilustre, un film che avrebbe meritato riconoscimenti maggiori e alla cui recensione rimandiamo.
Non siamo invece entusiasti di Jackie di Pablo Larraín, che trasforma la storia una vicenda aneddotica in una rappresentazione della tragedia personale totalmente avulsa da una visione storica. E il premio alla sceneggiatura pare quasi uno sgarbo a Larraín, visto che il regista non l’ha firmata.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it