Sabato 11 febbraio 2017 è scomparso un autore di svolta del fumetto giapponese e del fumetto tout-court. Jirō Taniguchi, morto a 69 anni, era un maestro nella trasmissione della contemplazione estatica, del suo valore come strumento di conoscenza del mondo e per il mantenimento della propria identità. Anche per questo il suo ultimo titolo I guardiani del Louvre era a nostro avviso tra i cinque migliori libri a fumetti del 2016.

In Europa è stato rivelato a metà anni novanta dai francesi e poi in Italia dalla Coconino Press, ed è diventato velocemente un autore di culto, per usare una formula ormai abusata e un po’ sconsiderata, ma nel suo caso calzante. Nel 2003 Quartieri lontani è stato premiato al festival di Angoulême che nel 2015 gli ha dedicato anche l’esposizione L’homme qui rêve. Nel 2010 Lucca Comics and Games gli ha attribuito il riconoscimento di Maestro del fumetto.

Il suo titolo più emblematico, inatteso, per non dire rivoluzionario, rimane certamente quello che lo ha rivelato anche come autore, L’uomo che cammina (Planet Manga – Panini Comics). Era il 1995, e Casterman, l’editore di Hergé e Hugo Pratt, di Mattotti e Bilal, lo lanciò sul mercato europeo in una nuova collana che fece epoca: Manga Casterman, che integrava autori occidentali e giapponesi e per questo coprodotta con Kodansha, il più importante editore giapponese di manga.

Già dalla copertina si rivelava la grande finezza e la sensibilità nell’uso del colore di Taniguchi che avrebbe espresso più compiutamente in opere interamente colorate, concepite direttamente per il mercato europeo. Ma era davvero unico il connubio tra il segno sottile e l’uso sapiente dei retini e delle gradazioni di grigio, la capacità di creare immagini profonde nella semplicità. Rigoroso il suo lavoro di costruzione dei piani tra paesaggi, sia naturali sia architettonici, e figure umane, dando rilievo a queste ultime sul foglio senza snaturare l’equilibrio compositivo.

L’emozione nei dettagli
Questa capacità è evidente in L’uomo che cammina dove sfrutta in pieno quella che è forse la prima specificità del fumetto, prima ancora di tutte le altre più complesse e nascoste: il fatto di essere una narrazione visiva per immagini fisse. L’unica esistente. Un fumetto lo si può leggere ovunque proprio come un libro. Ma contrariamente al libro è una narrazione per immagini. E Taniguchi ha fatto una rivoluzione. Ha fatto trionfare la contemplazione estatica nel minimale, in deambulazioni, ognuna di otto pagine, di un uomo nella periferia di una grande città. Taniguchi è riuscito a trasmettere al lettore le grandi emozioni che l’uomo prova nell’osservare la bellezza di particolari minimi.

Al cinema sarebbe forse bello o forse noioso, comunque sarebbe molto diverso. Ma in ogni caso il minimalismo di Taniguchi è perfetto per il linguaggio del fumetto. Anche per la sua capacità di essere diretto, semplice, ma solo in apparenza. E con una ricerca di perfezione formale che non è mai sinonimo di freddezza ma anzi veicolo dell’opposto, di un’intensa empatia con quanto rappresentato.

Il rapporto con la contemplazione atemporale di L’uomo che cammina ritorna nelle altre opere chiave del maestro giapponese, tutte molto intime anche se provviste di una vera struttura romanzesca e di una dimensione introspettiva. Forse proprio per questo Taniguchi ha interrogato l’incertezza della temporalità in maniera in qualche modo relativistica e inquieta. In fondo, la maggior parte delle sue opere sono inquiete, fatta eccezione per qualcuna, in particolare per quel capolavoro della quietudine che è L’uomo che cammina.

Un adulto che abbandona la famiglia è qualcosa di estremamente difficile da accettare

Inquiete ma sempre pudiche, delicate, quasi riservate, prima di rivelare al lettore l’interiorità che racchiudono. Quartieri lontani (pubblicato da Coconino Press, ma disponibile anche nell’edizione Rizzoli Bur con il titolo di In una lontana città, è stato adattato anche al cinema nel 2010 da Sam Garbarski) riesce a essere realista nel raccontare una storia apparentemente irrealistica. Si parla di sdoppiamento del proprio sé ma in un altro tempo, quello dell’adolescenza, e della rivisitazione della vita con la coscienza e la consapevolezza dell’adulto, alla ricerca di un mistero, un rapporto andato perduto, quello con il padre, scomparso all’improvviso.

Rivedendo e in qualche modo rileggendo il suo passato e le sue varianti, lo osserva, lo contempla, e acquisisce appunto consapevolezza. Un adulto che abbandona la famiglia è qualcosa di estremamente difficile da accettare, e questo trasferirsi in un corpo che è “altro” e insieme lo stesso, è un tema che sembra ossessionare Taniguchi. Come testimonia un altro titolo importante come Un cielo radioso (Coconino Press), dove un padre di famiglia muore in un incidente con un giovane motociclista che si risveglia dal coma con la coscienza del primo.

Quartieri lontani, Jirō Taniguchi. (Per gentile concessione di Coconino Press)

Sono opere d’interrogazione sul sé ma anche sul “se le cose fossero andate in altro modo”. Il tema della famiglia, della fedeltà ai propri cari, dei legami sotterranei che ci pervadono e che tendiamo a dimenticare o rimuovere le ritroviamo, centrali, nello straordinario Al tempo di papà (Planet manga – Panini Comics), quasi contemporaneo a L’uomo che cammina e antecedente a Quartieri lontani e Un cielo radioso, e in qualche modo opera matrice di questi ultimi due titoli.

Malgrado abbia un sapore autobiografico Al tempo di papà non è una vera e propria autobiografia. Un figlio torna nella città dov’è nato, dopo la morte del padre, compiendo un viaggio dalla grande città alla piccola, lontana città natale. Durante la veglia funebre torna a ricordare. A cominciare dai traumi, come l’incendio che ha devastato la sua casa, e tutta la città, e il divorzio dei genitori. In Taniguchi si ritorna sempre sui luoghi e sulle persone dimenticate, un invito a rimemorarsi, mettendosi però nei panni di un altro: un modo per fermarsi in un mondo che va sempre troppo veloce e non sembra mai avere tempo per le cose essenziali.

Afferrare l’impalpabile
Ai tempi di Bocchan (dieci volumi per Coconino Press), ciclo concepito negli anni ottanta, è un capolavoro che Taniguchi ha impiegato un decennio a realizzare (insieme a Natsuo Sekigawa) e che in Giappone ha vinto il prestigioso Osamu Tezuka award. È una sorta di storia della letteratura giapponese dal 1906 (anno 39 dell’era Meiji) al 1910 (anno 43 dell’era Meiji) attraverso grandi figure della cultura giapponese. Per gli autori del manga si tratta di un periodo storicamente molto importante, perché “proprio in quel breve periodo di tempo che seguì la guerra russo-giapponese si verificò una vera e propria svolta nella storia del Giappone moderno”.

Ma è anche un viaggio-transfert verso gli autori narrati, dove l’intimo e il corale, la letteratura e l’arte sono indissolubili con la vita. E soprattutto è fondamentale ancora una volta la rievocazione, il ricordo. Per Taniguchi, dopo tanti fumetti di genere (anche ottimi), è finalmente l’occasione di fare la prima opera davvero personale. Una nota sulla quarta di copertina del primo volume della serie vale come un assunto delle basi, dei precetti di L’uomo che cammina e delle opere a venire: “Il periodo Meiji per noi è molto importante, ha messo le fondamenta per il Giappone di oggi, così come lo conosciamo. Mi interessava trasmettere la sensazione che avevo percepito nelle pagine di Sekikawa (lo sceneggiatore, che in passato aveva già lavorato su queste tematiche). Volevo rappresentare un’aria più pulita, trasparente. E per raffigurare questo genere di impalpabilità ho cercato di inventarmi un modo diverso di disegnare”.

Dietro alle apparenze, fili invisibili legano pittura e letteratura, letteratura orientale e occidentale, arte e vita, genitore o figlio perduto

Afferrare l’indefinibile, l’impalpabile, attraverso immagini fisse il più possibile perfettamente definite. Questo l’approccio di Taniguchi, un maestro nell’uso dello spazio all’interno delle singole vignette e della loro perfetta concatenazione spaziale all’interno della tavola. In I guardiani del Louvre (Rizzoli Lizard), opera del 2014 commissionata dal museo parigino, ritroviamo tutto questo. Scegliendo alcuni tesori nell’immensa collezione del Louvre, Taniguchi ottiene il massimo per far durare il rapporto tra l’immagine e lettore, la sua durata nella lettura, indefinibile, imprendibile, misteriosa e in teoria infinita. L’uso del colore, sensibile e profondo, senza mai cadere nella banalità accademica, è perfetto come lo erano le sfumature di grigio create con i retini.

I guardiani del Louvre, Jirō Taniguchi. (Per gentile concessione di Rizzoli)

La quarta tavola del terzo capitolo di I guardiani (che potremmo anche chiamare fantasmi) fornisce un esempio ideale. Il protagonista, una variante dell’uomo che cammina (e contempla), è visto di spalle come se fosse seguito da una presenza impalpabile. In seguito la sua figura, inquadrata da una maggiore distanza, è vista di tre quarti penetrare in una volta boscosa dal percorso stretto. Poi segue una vignetta stretta rettangolare dove è inquadrato il cielo azzurro e campeggia il rumore onomatopeico del sibilo del vento e poi ancora segue una vignetta panoramica dal grande formato, dove il protagonista quasi ai bordi dell’immensità del paesaggio, una vasta prateria dal verde intenso, pronuncia: “È qui”. Poi si chiude con un’ultima immagine, un controcampo dove il protagonista è inquadrato dal basso ma in maniera abbastanza ravvicinata e di tre quarti, gli occhi contemplativi e assorti. Intorno, qualcosa d’impalpabile, indefinibile, che però si percepisce in modo netto e intenso.

Un autore universale
L’intero libro costituisce la messa in relazione di elementi della pittura occidentale e orientale almeno all’apparenza opposti, per farne cogliere l’unitarietà. Come ho scritto inserendo I guardiani del Louvre tra i cinque migliori libri a fumetti del 2016: “Quando Taniguchi isola frammenti dei quadri di Corot, mettendoli in relazione con frammenti d’immagini giapponesi e delle sue stesse tavole, li respira e li fa respirare come fossero un grande tutto, raggiungendo la poesia profonda, quella più prossima al nostro intimo”. Il panteismo e l’animismo orientale e la spiritualità occidentale, magari intrisa di cultura romantica, sono un tutt’uno. E alla fine di questo breve viaggio nelle opere di Taniguchi, è evidente che, dietro alle apparenze, fili invisibili legano in un tutt’uno pittura e letteratura, letteratura orientale e occidentale, arte e vita, genitore o figlio perduto. Alla fine tutti e tutto siamo sempre noi.

In questo percorso a ritroso nel tempo fino a giungere a una delle opere più recenti di Taniguchi, abbiamo lasciato da parte tante altre opere più che valide dell’autore, tra cui l’ottimo Si chiamava Tomoji (Rizzoli Lizard), ispirato romanzo su commissione sui fondatori di una branca del buddismo, dove la distanza temporale e geografica non impedisce che a unirli ci sia “una sottile e inconsapevole connessione cerebrale”, o il fantascientifico Icaro (Coconino Press, su sceneggiatura di Moebius), i racconti brevi di L’uomo della Tundra (Coconino Press), il magnifico cartonato a colori in grande formato La montagna magica (Rizzoli Lizard), o il ciclo alpinistico di successo La vetta degli dei (dal romanzo di Baku Yumemakura, Rizzoli Lizard), e molte altre ancora, tutte consigliabili, che il lettore potrà trovare andando sui siti degli editori.

Ma forse proprio due opere su commissione come Si chiamava Tomoji e soprattutto I guardiani del Louvre, paradossalmente, lasciavano intravedere un nuovo ciclo di rinnovamento da parte dell’autore pur restando fedele a se stesso. Non lo sapremo mai. A noi, suoi lettori fedeli, resterà la sensazione, forte quanto impalpabile, di qualcosa che si è perduto forse per sempre ma che non sarà mai troppo tardi per recuperare. Al di là del tempo e dello spazio.

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