È quasi imbarazzante recensire un film del genere se l’ha realizzato un regista con la storia personale, la cultura e la filmografia di Terrence Malick. Siamo quasi all’autoparodia involontaria. Non solo perché la leggerezza aerea del regista si fa maniera, non solo perché la maniera è fredda e spesso vuotamente estetica, ma perché nell’accavallarsi di situazioni prive d’intensità e di dialoghi che si vorrebbero aulici e rarefatti ma che si rivelano falsamente profondi, la leggerezza finisce per sconfinare nell’inconsistenza. E la profondità dell’interrogazione metafisica si dissolve.

Eterne domande come “chi siamo” o “dove stiamo andando” sono certo interessanti da porre se si trovano angolazioni originali che consentano di offrire una riflessione di qualche profondità, e quindi una qualche verità (che, se mai esiste, è sempre sfaccettata e mai univoca).

E tanto più lo sarebbero in un cinema come quello di Malick, in cui il primordiale e l’arcaismo scorrono ininterrotti, inscindibili dall’interrogazione sull’essere umano in generale e sul suo conflitto con la modernità. Riportate in questo modo, restituite tali e quali nel film, sortiscono piuttosto un involontario effetto comico-parodistico, e l’ipnosi incantatoria ricercata invece di essere portatrice di intensità e densità nella leggerezza rischia di provocare banalmente noia.

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Entità fluttuanti
L’artista-professore di filosofia teoretica nel raccontare l’eterna storia di un triangolo a tre (qui declinata in ambito pop music) non sembra riuscire a far divenire archetipo uno stereotipo, o cliché narrativo.

Qui siamo a Austin, città di festival musicali così come il Texas è uno stato di spazi vasti, ariosi. I personaggi, interpretati da un quintetto di star come Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Michael Fassbender, Cate Blanchett e affiancati da guest star come Patti Smith e Iggy Pop, sono quasi entità fluttuanti, esseri fisici e metafisici insieme che, interrogandosi sull’esistenza, sembrano al tempo stesso già contenere una sorta di serenità sul dopo che verrà.

Volteggiano nei movimenti come nelle bolle-sequenze in cui sono rinchiusi, e che si susseguono come un flusso continuo e unitario malgrado ciascuna abbia un suo climax e faccia sentire la sua singolarità.

L’intenzione estatica si annulla troppo spesso in posa estetica

Un’idea in sé bellissima. Malick usa magistralmente la camera nel comporre le inquadrature, grande l’impegno del direttore della fotografia Emmanuel Lubecki, grande anche il lavoro nel mantenere una fluidità, una delicatezza, una leggerezza, nel montaggio delle varie sequenze (al quale ha lavorato un trio di professionisti del montaggio) in modo che mantengano costantemente la loro dimensione di bolla, di sospensione immobile da un lato e di fluttuazione leggera dall’altro. Operazione davvero non facile.

Ma l’intenzione estatica si annulla troppo spesso in posa estetica. L’accumularsi di queste bolle sequenziali nell’inconsistenza di situazioni di un mondo dove la leggerezza è sinonimo di vacuità, invece che evocare un sentimento di meraviglia si risolvono piuttosto in un catalogo asettico da rivista di architettura. E a tratti, soprattutto verso la fine, si colgono alcune immagini, spesso di natura, dalle quali sembra sorgere un sentimento, un mistero, qualcosa di semplice e profondo insieme. Immagini estatiche che hanno davvero qualcosa di commovente e dove sembra tornare il grande regista.

Può darsi che il contrasto sia voluto, ma è da tempo che il cinema di Malick si auto-divora e il recente documentario-poema (o che tale si vorrebbe) Voyage of time, presentato in concorso all’ultimo festival di Venezia, ci era parso confermare la deriva del cineasta. Qui il flusso delle sequenze, come detto bolle o capsule, si vuole flusso eterno, un eterno ricominciare, un big bang che inanella un altro big bang, una song che inanella un’altra song, all’infinito. Una meccanica, cosmica e non, che pare fine a se stessa.

Vuoto chiama vuoto. Il vuoto dello spazio (meta)fisico, sia terrestre sia cosmico, la sua leggerezza poetica, è divorato dal vuoto dell’effimero che si vorrebbe criticare (uno dei temi del film, anche se non l’unico) e il vuoto esistenziale risentito dai personaggi, privato di densità introspettiva, si risolve in una globale assenza di profondità. Ci vuole una capacità di densificazione nel compensare la leggerezza, altrimenti a trovare la loro unitarietà non sono il corpo e l’anima ma al contrario il vuoto della forma e il vuoto dei contenuti.

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