Un’atmosfera sospesa, una luce calda e avvolgente, delle parole sussurrate. È mattina e un bambino sveglia una ragazza. In questa sequenza d’apertura, tutto è anticipato, o per meglio dire enunciato, perché sono presenti tono, metafore e stile del film. In maniera densificata ma chiara e sintetica possiamo già trovare molto di quello che l’opera intende sviluppare, sottolineato costantemente da musiche delicate, un montaggio morbido delle sequenze e movimenti di camera leggeri, aerei, avvolgenti.

Vincitore di quattro premi all’ultimo festival di Cannes, tra cui quello per il miglior attore protagonista della sezione Un certain regard che lo ha selezionato, e della Camera d’or (premio assegnato al miglior film d’esordio tra quelli presentati in tutte le sezione del festival), Girl, debutto alla regia del regista belga Lukas Dhont, 27 anni, che firma anche la sceneggiatura, è una vera sorpresa. Una pepita dorata come la splendida luce con cui il film è fotografato, intenso quanto piacevole alla visione.

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Al centro dell’intera narrazione una giovane adolescente, Lara, che segue con grande dedizione e sforzo i duri corsi in una scuola di danza classica. Ma presto scopriamo che Lara è in realtà un ragazzo. Dall’inizio alla fine, il film è quasi un atto d’amore verso il desiderio ardente di un adolescente alla felicità. Il desiderio ardente di questo, o questa, adolescente è quello di cambiare sesso, sostenuta dalla famiglia e in particolare dal padre con il quale vive insieme al fratellino. Per questo sta seguendo una delicata cura ormonale, necessaria prima di fare l’operazione.

Lara è seguita nella vita quotidiana con grande rispetto, anche nei momenti di intimità che sono sempre funzionali alla narrazione, dalla macchina da presa del regista. Dhont riesce a farlo sempre con naturalezza e a costruire al contempo momenti esemplificativi della bellezza emozionale così come, inversamente, della durezza di questo momento di trasformazione, di mutamento, senza che nulla sembri mai forzato. Si tratti di immagini palesi o metaforiche. Lara sembra vivere il raggiungimento di questo cambiamento in maniera quasi mistica, quasi un desiderio di un’elevazione e rivelazione vagamente prossima all’estasi religiosa. La grazia di Lara è lo specchio della ricerca di una forma di Grazia con la g maiuscola.

Estetica fiamminga
La quasi perenne luce diurna è spesso calda, tra il giallo e l’arancio, soprattutto nei momenti di intimità di Lara nella sua cameretta. Vedendo questo film belga, dove i personaggi oscillano con naturalezza tra lingua francese e fiamminga, è difficile non pensare alla luce – e al senso profondo che veicola quella luce – di certa pittura fiamminga, in particolare a quella di Vermeer, come anche alle pose, eleganti quanto delicatamente maestose, delle donne e delle fanciulle ritratte dal maestro olandese. Lo sguardo di La ragazza con l’orecchino di perla e la luce di La dama della collana di perle ben presto si affiancano durante la visione del film. Ritroviamo lo sguardo e le pose nobili e delicate di Lara, grazie al lavoro davvero impareggiabile del regista e dell’attore protagonista, Victor Polster, un exploit, il suo, che crediamo resterà nella storia del cinema.

Se fa capolino al tempo stesso un’ombra leggera di modernità patinata, l’estetica non è mai fredda, la luce, insieme soffusa e naturale, crea al contrario come un gigantesco film-climax con al suo interno delle sequenze con un loro micro-climax, quasi protettive, uterine, in cui lo spettatore ha voglia di restare. Se tutti, insegnanti, medici, e psicologi gli parlano con rispetto e spesso con delicatezza e voce quasi sussurrata, nel filmare un essere che cerca di uscire a tutti i costi dalla sua crisalide, la delicatezza e la dolcezza riescono a integrarsi alla perfezione con i momenti duri, anche crudi, che affiorano. Perché la Grazia con la g maiuscola è come la vita vera, non è cioè una passeggiata. Come quando le amiche di corso finiscono per rovesciarle addosso il peggio della logica maschile. A lei, che tanto si affanna a uscire dalla terra di nessuno in cui vive.

Un po’ martire e un po’ responsabile del suo martirio, la delicatezza e la nobiltà di Lara nascondono anche una dimensione ossessiva, tipica sia della vera mistica sia di chi anela a sfuggire, quale che sarà il costo, a una molto concreta condizione esistenziale infelice. La mistica di Lara, che del resto non rifugge del tutto dalla sessualità, è laica in qualche modo. Il corpo non è cosi facilmente mutabile e i sanguinamenti, che oscillano tra delle sorte di stigmate e il masochismo femminile, stanno a dimostrarlo. In particolare i sanguinamenti dei piedi che restano piedi maschili, metafora di quanto sia difficile mutare, elevarsi, volare.

Oscillando tra i due sessi, così come tra l’infanzia e la vita adulta, il regista ci mostra la durezza della battaglia di Lara, perché sono due i mutamenti che deve affrontare, invece di uno. Quanta forza dovrà tirare fuori dalla sua fragilità intrinseca per divenire la farfalla che vuole essere per evitare di vivere un’esistenza falsa e infelice. E quanto può essere pericoloso e doloroso essere un’adolescente transgender. Il film ce ne dà piena coscienza, anche se, per fortuna, Lara vincerà grazie anche a un sentimento nobile, alto, antico, di cui il film è sottilmente pervaso.

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