Con il patrocinio di Amnesty international Italia arriva nelle sale italiane Manta Ray, premiato come miglior film della sezione Orizzonti nell’edizione 2018 della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. L’esordiente tailandese Phuttiphong Aroonpheng ha realizzato un’opera profonda, poetica, onirica, al contempo delicata e grave, sul popolo rohingya, dalla lunga vicenda storica e a cui il film è dedicato dall’apertura. Impregnato di atmosfere e invenzioni inattese, complesso, ma non così difficile come forse può sembrare.

C’è una domanda che sorge spontanea. Perché usare la poesia e la trasfigurazione per trattare una tragedia interetnica insieme storica e di attualità?

L’orrore indefinibile ma al tempo stesso concreto è quello più agghiacciante della storia umana. Non è rappresentabile in chiave realistica, anche per questioni etiche, o meglio di etica dello sguardo. Soprattutto per il cinema così vincolato alla registrazione del reale. Per questo, contrariamente alla letteratura che ci offre dei romanzi capolavoro, esistono pochi film di finzione sull’olocausto – se si tiene conto dell’importanza che questa tragedia epocale ha avuto nel novecento – e questi pochi il più delle volte sono criticati e nessuno di essi è considerato un capolavoro. Il cinema si riprende invece nel documentario d’autore, dove è inarrivabile, in particolare con gli straordinari documentari di Claude Lanzmann.

Tornando in Asia, con un altro eccellente esempio, questo è vero anche per la notevole opera documentaria di Rithy Pahn, il regista cambogiano rifugiato in Francia i cui film oscillano tra il documentario dal registro più realistico, costituito da interviste e materiali di repertorio, e quello più di poesia e simbolico, contiguo a certi lavori della videoarte e delle installazioni.

Un film ondulatorio
Come nel caso di Manta Ray. Ecco il perché di un film di poesia, di un cinema che trasfigura. Al tempo stesso, come in uno specchio, nella sua parte diurna prende una dimensione formale più classicamente imperniata sul reale, anche quando affiorano momenti poetici o contemplativi. Un film di conseguenza ondulatorio, oscillante.

Oscillante tra due registri o due stili di regia, tra il giorno e la notte, tra la città e la giungla, tra due rive, due paesi, due confini, due film. Forse potremmo quasi dire due film-confine, due film-rive, perché qui si annullano i confini e le rive diventano una sola, rispecchiando i luoghi di ambientazione. Il fiume Moel, dal regista definito “un piccolo specchio d’acqua che segna il confine tra la Thailandia e la Birmania”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Dichiara il regista nella nota: “Sono arrivato in questo posto nel 2009, solo ed emozionato, guardando la Birmania. Non c’era nessun checkpoint per il controllo dell’immigrazione, nessun soldato di pattuglia, nessun filo spinato. Solo un torrente profondo fino alla cintola mi separava dall’attraversamento. Ho guardato dall’altra parte. Un bambino è spuntato da un cespuglio, è entrato in acqua e ha cominciato a nuotare nella mia direzione, verso il mio paese. Sul mio lato della riva, a un paio di metri di distanza, altri due ragazzi stavano scherzando. Hanno gridato al ragazzo straniero di nuotare e unirsi a loro. Ho guardato come i tre ragazzi nuotavano e cantavano insieme nel Moel”.

L’odio incomprensibile
Sul fiume Moel, un giovane pescatore dai capelli biondo ossigenati ripesca un giovane ferito. Non sa chi sia e tantomeno perché sia finito lì. Lo porta nella sua piccola casa di legno e lo cura. Da quel momento, gradualmente, comincia tra il giovane pescatore e lo straniero un silenzioso rapporto di amicizia, empatia, conoscenza. Silenzioso perché lo straniero, presumibilmente per via della lingua, non parla. Ma verso la metà del film il pescatore scompare. E piano piano, lo straniero si immedesima in lui, fino al punto da tingersi i capelli.

Perché lo fa? Perché quelle luci, che ricordano le luci al neon delle discoteche e dei locali kitch per turisti, con cui il pescatore ha riempito la casa chiudendola alla luce diurna e alla realtà, sono poi riprese dallo straniero e finiscono per avvolgere, contaminare, divorare anche la foresta, come annuncia la magica sequenza d’apertura?

Il regista metaforizza nello straniero la paura inconscia dell’altro ma anche l’assoluta dimensione interscambiabile tra esseri umani

In realtà Manta Ray è un film tra il metaforico e l’allegorico che, trattando di una questione così concreta, parla – a tutti noi occidentali quanto agli asiatici e a ogni essere umano – della patologia endemica che sembra intrinsecamente latente quanto onnipresente nella psiche umana. L’odio incomprensibile, insensato verso l’altro, anche se è un derelitto. La giungla è il nostro inconscio, il suo labirinto. Una giungla dove ombre rivestite di piccole luci si aggirano armate nella notte, dove nel fogliame umido sembrano muoversi strane teste arcaiche, primordiali, dagli occhi di brace, dove si odono strani suoni, non esattamente quelli tipici della giungla, dei suoi animali.

Nel voler ripudiare lo schematismo tra razze o etnie, il regista – che si dice inorridito dal fatto che anche diversi suoi amici dimostrino un incomprensibile odio o fastidio verso i rohingya – metaforizza nello straniero che si sostituisce gradualmente al pescatore al tempo stesso la paura inconscia dell’altro che prende il nostro posto, ma anche l’assoluta dimensione interscambiabile tra esseri umani, il fatto che queste differenze che ci sembrano così fondamentali – somatiche, culturali o religiose – sono pura apparenza e di nessuna sostanza, ma avvelenano l’esistenza umana quanto la storia umana.

Rigenerati ed emancipati
Così come tutti possono tingersi i capelli di biondo, i tratti fondamentali sono unici e la maggior parte delle persone in ogni paese aspira a una vita felice con le persone che ama. Il nazionalismo che canalizza le frustrazioni sociali nel risentimento verso l’altro, che tanto angoscia e indigna Aroonpheng, ci dice che andando oltre i confini di quell’area geografica, spuntano i profili dei Trump, Le Pen, Salvini, Bolsonaro e le nostre paure, le nostre frustrazioni che dovremmo imparare ad analizzare, a investigare con onestà, andando a fondo nella nostra interiorità, nella nostra psiche, nel nostro inconscio, per uscirne rigenerati come essere umani, depurati ed emancipati. Pronti a indirizzare verso altre battaglie, verso i veri responsabili, quello che ci rende infelici, frustrati, incompiuti. Pronti non solo a guardare e ascoltare senza pregiudizi, ma ad auscultare il mondo.

L’alienazione arcaica e moderna e su come quest’ultima s’impone improvvisamente e violentemente su antichi tessuti culturali e sociali, è il tema dominante in gran parte del cinema d’autore asiatico, soprattutto quello che coniuga la sperimentazione con l’attenzione alle questioni etnico-identitarie e che trova nel geniale regista tailandese Apichatpong Weerasethakul – Palma d’oro a Cannes nel 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti – l’autore di riferimento, il nume tutelare, oltre che l’evidente ispiratore.

Dissolvenza psicotica
Anche qui l’alienazione è lo specchio riflettente, il buco nero dove tutto precipita. “L’uomo squilibrato” che il regista, chiudendo gli occhi, dice di vedere aggirarsi nella foresta e che fa vedere allo spettatore, metaforizza tutti noi, la nostra follia latente, ma anche la modernità. Quella modernità attraente e suadente come il serpente biblico. Si tratti di cellulari di nuovo tipo, del tingersi i capelli di colore biondo come un occidentale o di luci al neon da discoteca, quel tipo di modernità ci aliena dall’io interiore, da noi che siamo anche l’altro, creando bisogni che non abbiamo e compensazioni artificiali ossessive o compulsive, e alla fine, ormai spaesati, svuotati, depauperati, il risultato è che non sappiamo più dove siamo, non sappiamo più chi siamo.

Per questo nel film non sappiamo dove siamo a un dato momento, pur sapendo che siamo ancora nell’abitazione del pescatore mutato in straniero. Mentre il pescatore, ora con i capelli neri e semirasati, è forse tornato – insinuando il dubbio che si tratti del proprio doppio, di una forma di schizofrenia forse endemica all’intero genere umano –, gli ambienti chiusi dell’abitazione avvolta nella psichedelica del neon si dissolvono in quelli della foresta. Al tempo stesso è anche una proiezione psicotica del personaggio, il quale, come detto, ci rappresenta tutti. E con questo torniamo ancora alla psiche, all’inconscio.

Nel film si ausculta continuamente la terra. Là sotto giacciono forse grandi delitti verso tutti noi. Al tempo stesso è tornando ad auscultare gli altri come la terra di cui siamo figli, all’empatia assoluta, totale, che ci si libera dalle ossessioni patologiche e ci si eleva a essere umano compiuto. Per avere il meglio invece del peggio della modernità e dell’arcaico. Cioè la modernità dei diritti umani, e un rapporto sano e consapevole con l’ambiente circostante, verso quel che è essenziale, dell’arcaico.

Bel film della memoria, Manta Ray si perde nella notte dei tempi per spingerci a evitare di perderci nel vuoto del tempo (post)moderno.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it