Il palmarès di Cannes guarda al futuro
Un’edizione del Festival di Cannes strana, per via del covid-19 e della collocazione estiva, ma eccellente, soprattutto la selezione nel Concorso principale che continua a sperimentare e a proporre dal 2016 autori nuovi e più innovativi riducendo la presenza dei soliti noti (Almodóvar, Haneke, Loach…).
Il palmarès riflette bene qualità e varietà della selezione come conferma anche l’abbondanza mai vista di ex aequo, sintomo di probabili tensioni in giuria. La Palma d’oro andata a Titane di Julia Ducournau, un’opera originale che poteva meritare un riconoscimento ma certo non il titolo massimo, sembra riflettere una giuria composta più da donne che da uomini. Al contempo, sono eccessive certe critiche al film. Ducournau, già rivelata a Cannes nel 2016 nella Settimana della Critica con Raw. Una cruda verità, realizza un film folle che ibrida il David Cronenberg di Crash e la commedia sociale e intima francese, l’eros in qualche modo transgender con la tradizione virile (Vincent Lindon). Gli opposti registri tematico-narrativi non sono perfettamente amalgamati, ma c’è una forza reale che esorta a ulteriori sperimentazioni e impressiona per l’attrice, Agathe Rousselle, nel ruolo protagonista che regge con il suo volto e il suo sguardo, quasi sempre muta, l’intero film.
Perfetto il premio per la regia al meraviglioso Annette di Leos Carax. Nulla da aggiungere rispetto a quanto abbiamo scritto su Compartment n. 6 (Gran Premio ex aequo con A hero) del finlandese Juho Kuosmanen, opera dalle grandi atmosfere, e a Drive my car del giapponese Ryusuke Hamaguchi, premiato per la sceneggiatura, che speriamo possa trovare distribuzione italiana senza attendere la Palma d’oro come per Bong Joon-ho con Parasite. I premi andati a The worst person in the world di Joachim Trier, migliore interpretazione femminile a Renate Reinsve, e a Hero di Asghar Faradhi, vanno a opere dignitose ma un po’ in pantofole, soprattutto il secondo che sembra continuare la sua parabola discendente, mentre il premio per la migliore interpretazione maschile al pur bravo Caleb Landry Jones che illumina forse troppo il modesto Nitram dell’australiano Justin Kurzel, avremmo preferito che fosse andato al rapper Simon Rex, attore protagonista di Red Rocket dello statunitense Sean Baker, ritratto vivido dell’America dei perdenti mediante un ex pornostar.
Dispiace che nulla sia andato all’ottimo France di Bruno Dumont, che lavorando plasticamente l’estetica televisiva fornisce un ritratto caustico e originale del giornalismo tv, e al delicato Lingui del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, che disegna un bel personaggio di adolescente africana confusamente in ricerca di emancipazione. Ma siamo molto felici per il Premio della giuria andato ex aequo ad Ahed’s knee (Il ginocchio di Ahmed) dell’israeliano Nadav Lapid, film sperimentale e ironico sulla situazione ormai paradossale di Israele mediante l’egocentrismo dell’artista, e a Memoria.
Memoria è al contempo il proseguimento, il compimento e il rilancio verso nuovi orizzonti della traiettoria di uno dei cineasti più originali, profondi, inquieti, sottili e alieni, questo il termine adeguato, del cinema contemporaneo: il tailandese Apichatpong Weerasethakul, già Palma d’oro a Cannes nel 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (per merito di Tim Burton che ne presiedeva la giuria).
Weerasethakul fa pienamente parte di quella tendenza, davvero unica, del cinema contemporaneo che lavora sull’ibridazione di tutte le forme del cinema, sulla memoria (e la sua assenza), l’arcaico e lo svuotamento d’interiorità e identità dell’individuo, fenomeni, quest’ultimi, provocati da processi forzati di modernizzazione. Una tendenza espressa soprattutto da una precisa area geografica, l’Asia che fornisce gran parte di quei rari cineasti del cinema mondiale ad avere la levatura, la potenza e l’ampiezza dei grandi del cinema d’autore del passato, da Bergman a Ozu.
Per meglio ricordarsi delle vite precedenti, dopo quelle di tutta la popolazione tailandese e degli immigrati del confinante Laos in Zio Boonmee, questa volta il regista tailandese va in trasferta in Colombia. L’arcaico delle leggende nei territori precolombiani al posto di quelle tailandesi, l’esercito, i guerriglieri colombiani in sostituzione dell’esercito e dei ribelli tailandesi, la giungla colombiana rimpiazza quella tailandese, ovviamente la lingua spagnola è al posto della lingua thai, ma c’è anche la permanenza delle malattie fisiche e della psiche o del piccolo luogo nascosto in una foresta, veicolo di un tesoro dimenticato inteso come una verità suprema ancestrale. Il film arriva proprio ora mentre la Colombia ricomincia a ribollire.
Forse non per caso. In Weerasethakul l’intimo coincide sempre con la dimensione politica, così come quella poetica con quella prosaica e quella visionaria con quella minimale. Certo, è innegabile che per il cineasta girare in Colombia e con due attrici internazionali come Jeanne Balibar e Tilda Swinton (qui nel ruolo protagonista, era presente a Cannes con ben tre lungometraggi) è un modo di sfuggire alla dittatura militare e alla censura che attanagliano la Thailandia – una situazione che angustia nel profondo Weerasethakul –, un modo di parlare di casa propria andando in quelli che per lui sono in qualche modo gli antipodi. Ma è anche molto di più. Perché attraverso la trasfigurazione poetica di leggende o di modi di sentire e percepire il mondo, come per esempio quello dei sensitivi – soprattutto se ai margini del mondo –, Weerasethakul intende dirci in modo insieme semplice ma profondo che siamo davvero un’unica razza, che siamo tutti fratelli. Soprattutto se siamo poveri.
Weerasethakul torna sempre ai suoi fantasmi come Monet alle sue ninfee, abbiamo scritto in altre occasioni. O ai suoi cimiteri, per citare il titolo del suo lungometraggio precedente, Cemetery of splendour. Per lui sono come luoghi vivi e di poesia, luoghi di contemplazione. Viene in mente il laico ma molto spirituale Hugo Pratt. Il creatore di Corto Maltese amava andare in pellegrinaggio spirituale sulle tombe e nei cimiteri, possibilmente fioriti. Sotto agli strati di polvere o di sedimentazione c’è una verità antica, una memoria, ancora molto viva.
Weerasethakul è il suono del cinema contemporaneo. Forse nessuno ha sperimentato il suono come lui e con questi risultati. Fin dal capolavoro Tropical malady (2004, premio della Giuria a Cannes), forse il suo film più bello, dove Weerasethakul rappresenta una giungla “altra”. Andando a registrarne di notte i suoni, delle sonorità misteriose si sono rivelate, non presenti nelle ore diurne per qualità e quantità. Suoni specifici alla notte della giungla, quasi dei suoni fantasma. È più che mai vero in questo film che comincia con dei grandi boati che percepisce soltanto Jessica Holland, la botanica interpretata da Tilda Swinton.
Il suono è qui il vero protagonista. Nulla di più astratto e di specifico al cinema, tra tutti i mezzi d’espressione narrativi. Il regista ne sembra come indagare il suo significato nell’inconscio della psiche, compresa quella collettiva, la sua concretezza, messa al pari con quella della roccia. Dei boati improvvisi svegliano Jessica nella notte e la mettono in imbarazzo di giorno mentre mangia al ristorante con amici. Impazzire o accettare la cosa? Andare alla radice di quello strano suono insieme antico e moderno, per esempio razionalmente con l’aiuto di un musicista e ingegnere del suono, oppure lasciarsi portare istintivamente dagli eventi, dal proprio “sentire” profondo?
A Bogotá, metropoli moderna situata a oltre 2.600 metri d’altitudine su un altipiano e circondata dalle montagne della Cordigliera delle Ande, tropicale e fredda insieme, Jessica ritrova per tutti l’anima collettiva dell’umanità che si va perdendo. In maniera intima e universale insieme. E Weerasethakul sa come pochi accostare, o meglio ibridare, visioni e suoni sorprendenti e inquietanti con singole immagini e suoni semplici ma profondi. Come un ruscello che scorre vicino a una piccola casa con l’orto, situata ai piedi delle montagne. La sua quiete è quella della serenità raggiunta in vita o annunciatrice di quella della morte? Forse non c’è alcuna differenza per Weerasethakul che fa uso del volto quasi da extraterrestre della Swinton – un volto, guardando alla poetica del regista, universale oltre che non banale – e di visioni che, fin dal suo primo lungometraggio Mysterious object at noon (2000), sembrano ora fraternizzare esplicitamente con gli ufo che fanno capolino inopinatamente in film come Still life, Leone d’oro a Venezia nel 2006, e I figli del fiume giallo (2018) del maestro cinese Jia Zhang-ke qui nella veste di coproduttore (mentre la Swinton è produttrice esecutiva).
Discutibile il palmarès della giuria di Un Certain Regard presieduto dalla cineasta inglese Andrea Arnold e composta da tre donne e due uomini, che oltre a premiare quattro cineaste e due registi, ha scelto in massima parte opere che sia a noi sia a molta critica internazionale sono parse meno valide. Tra i film della sezione avrebbero per esempio meritato maggiormente Women do cry delle cineaste bulgare Mina Milena e Vesela Kasakova, coraggiosa immersione sull’universo femminile in Bulgaria compreso quello gay, o Moneyboys dell’esordiente austriaco di origini cinesi C.B. Yi, che rappresenta con intelligenza e sensibilità la prostituzione maschile in Cina.
Va ricordato infine che nelle altre sezioni il cinema italiano ha fatto bella figura. In Cannes Première, Marco Bellocchio, Palma d’onore alla carriera insieme a Jodie Foster, ha presentato con Marx può aspettare un doloroso ma ispirato documentario autobiografico di elaborazione del lutto sia personale sia familiare; il trio Pietro Marcello, Francesco Munzi, Alice Rohrwacher, con Futura (Quinzaine des réalisateurs), ha inteso dare voce ai giovani su come vedono il futuro (e la sua assenza) in un bel documentario d’autore e pedagogico come quelli di un tempo; Jonas Carpignano con A Chiara (Quinzaine) chiude ottimamente al femminile la sua trilogia di Gioia Tauro e i rom; ha poi sorpreso anche la stampa internazionale il duo esordiente Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis con Re Granchio (Quinzaine).
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