Netflix e le piattaforme fuori, il cinema destinato alle sale dentro. Questo il messaggio forte mandato dalla giuria presieduta da Julianne Moore e che ha lavorato insieme al direttore artistico Alberto Barbera, stando a quanto ha dichiarato in conferenza stampa la stessa presidente.

Nell’insieme è davvero un bel palmarès quello di Venezia 79, all’opposto di quello del 2021 dove furono premiate solo produzioni Netflix. E a nostro giudizio non è stato nemmeno un brutto concorso, pur tenendo conto di qualche caduta di troppo e di alcuni scivoloni nei premi assegnati. Ma è indubbia una sovrabbondanza di titoli espressi o comunque legati all’area angloamericana, nella selezione e soprattutto nei film premiati. E questo è un problema. Perciò sono necessarie delle considerazioni più in profondità. Diremo dunque brevemente dei film premiati mentre nella seconda parte del testo ragioneremo sullo sfondo e sul contesto generale in cui i premi vanno a inserirsi.

Ma cominciamo dall’inizio. Il Leone d’oro a All the beauty and the bloodshed, l’eccellente documentario di Laura Poitras, è un premio forse esagerato rispetto alla sua qualità effettiva – comunque ben oltre la sufficienza, sia chiaro – ma è tuttavia un premio anche “politico” che trova precedenti al di fuori dalla Mostra e la sua giustificazione in questo contesto storico, visto lo strapotere delle corporations. E raccontando con stile visivamente polifonico la vita della fotografa e attivista newyorkese Nan Goldin e la sua lotta contro i titani degli oppioidi, alla regista riesce un’alchimia rara fondata sulla finezza tra informazioni su una questione grave e scottante, capacità di suscitare sentimenti profondi di commozione senza cadere nel ricatto e nella facile emotività e, infine, la capacità di suscitare indignazione senza scivolare in facili schematismi.

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Ci sarà da tornarci sopra quando il doc arriverà in sala con I Wonder Pictures, ma conferma intanto l’importante intuizione di Alberto Barbera che ha conferito al documentario d’autore un grande rilievo nella manifestazione veneziana, una scelta dalle significative conseguenze anche al livello internazionale: se oggi le più qualificate riviste internazionali di critica e studio sul cinema discutono e riflettono sui film di registi maestri del documentario come Frederick Wiseman o Errol Morris, magari accostandoli nelle classifiche dei migliori film dell’anno ai titoli di fiction, è il chiaro riflesso di questa scelta, un mutamento che viene proprio da Venezia.

Al francese Saint Omer dell’esordiente Alice Diop (esordiente nella finzione poiché al suo attivo ha un numero significativo di documentari), notevole e inatteso film di cui abbiamo scritto nella seconda cronaca, va bene il secondo premio per scala gerarchica, cioè il Leone d’argento, gran premio della giuria anche se il Leone d’oro sarebbe stato pienamente meritato. Ma forse per Saint Omer, al quale è stato assegnato anche il premio Dino De Laurentis del Leone del futuro per la miglior opera prima scelta tra tutte le sezioni del festival, si sarebbe potuto pensare a un ex aequo con Khers nist (No bears), il meraviglioso film dell’iraniano Jafar Panahi arrivato in chiusura di concorso e ora il nostro preferito del concorso insieme a quello di Diop. O anche un ex aequo tra Panahi e Poitras o ancora un ex aequo tra Diop e Poitras.

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E questo perché sarebbero stati premiati dei film artisticamente forti e insieme politici in senso diverso ma assolutamente complementari tra loro. Mentre invece aver dato al film di Panahi il Premio speciale della giuria, e non almeno il Leone d’argento, è quantomeno indelicato nei confronti di un autore arrestato dal regime iraniano insieme a tanti suoi colleghi. Un autore che, malgrado la poltrona vuota in proiezione ufficiale, se non altro è stato ben presente sullo schermo con la sua bonomia e la sua umanità semplice con un film alquanto godibile, piccolo e al contempo davvero grande su una realtà che si fa ormai ingestibile per il cinema come per tutti noi. Ma ci sarà modo di tornarci sopra tra meno di un mese, quando Academy Two lo porterà nelle sale italiane.

Come avevamo indicato sempre nella seconda cronaca, il premio per la miglior sceneggiatura è andato come previsto a The banshees of Inisherin dell’inglese di origini irlandesi Martin McDonagh, un titolo che non cessa di crescerci dentro e che sembra scritto da un letterato o adattato da un libro mentre al contrario è una sceneggiatura originale. Mentre la coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile al suo interprete principale, Colin Farrell, non ci convince perché se è indubbiamente ottima, e Farrell ci regala uno dei più divertenti e al contempo enigmatici allocchi del cinema di sempre, non vi è dubbio che l’avremmo data all’interpretazione davvero eccelsa di Brendan Fraser in The whale di Darren Aronofsky, regista che non sempre ci piace, ma che invece questa volta ci ha convinto realizzando un film da camera – è un adattamento teatrale – incentrato sul corpo e sul volto sofferente del suo interprete principale mentre passa in rassegna molti generi con bella disinvoltura.

Invece sulla coppa Volpi femminile alla davvero notevole Cate Blanchett per Tár, di cui abbiamo scritto, non abbiamo nulla da dire. Ma conferma le informazioni in nostro possesso sulle impostazioni e i criteri che la giuria si era data: di non premiare troppo Netflix, soprattutto i film prodotti dalla piattaforma (e in effetti nessun premio è andato ai quattro titoli di Netflix presenti in concorso, nemmeno all’ottimo White noise di Noah Baumbach del quale abbiamo scritto sempre nella prima cronaca). E poi di favorire opere più bisognose di una spinta come Saint Omer, piuttosto che pur ottimi titoli ma dagli importanti apparati produttivi come Tár.

Il premio per la miglior regia a Luca Guadagnino per Bones and all è andato a un film che non è né carne né pesce e resta sulla superficie di tutto malgrado alcune idee interessanti e un gran senso delle atmosfere soprattutto notturne. Al quale si aggiunge il premio Marcello Mastroianni all’attore o attrice emergente dato all’interprete principale del film di Guadagnino, Taylor Russell, interprete contro la quale non abbiamo nulla, fatto salvo che anche guardando agli unici premi andati a un italiano malgrado la presenza folta di titoli italiani in concorso, sembra che tutto o quasi debba essere angloamericano per essere premiato.

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Dando inoltre l’impressione che per suscitare l’eccezione bisogna essere donna nera o un iraniano arrestato, a prescindere dal grande talento. Ma un regista uomo, biondo e tedesco autore di un film geniale ha altrettanto diritto a esser premiato per il bene del cinema e del pubblico. Oltretutto questi dubbi potrebbero creare un pregiudizio del tutto ingiusto verso le opere di Alice Diop e Jafar Panahi. Anche perché se è imperativo spingere il pubblico a vedere i film al cinema, siano titoli nuovi o classici, non devono pesare sospetti del genere.

Considerazioni sul cinema da ritrovare
Recentemente al festival bolognese del Cinema ritrovato e nella prima parte di agosto a Locarno abbiamo potuto vedere o rivedere su grande schermo film del passato recente di Hollywood – che nel suo periodo classico aveva portato a un altissimo grado di artisticità un cinema rivolto al grande pubblico. Lo abbiamo potuto fare grazie agli omaggi a Costa-Gavras proiettati in piazza Grande e ammirare così opere come Compartiment tueurs (un poliziesco d’esordio ambientato nella Francia dei primi anni sessanta girato e fotografato in un elegantissimo bianco e nero dove tutto si muove senza che la visione risulti mai stucchevole o faticosa tanto che si arriva alla fine senza accorgersene), oppure ancora la straordinaria retrospettiva curata da Bernard Eisenschitz e Roberto Turigliatto dedicata a un genio come Douglas Sirk, che ha consentito di scoprire i film del periodo tedesco del regista prima della sua fuga dalla Germania nazista, e ammirare Lo specchio della vita, uno dei capolavori assoluti di Sirk in via eccezionale proiettato in piazza Grande – tra i più grandi schermi d’Europa per le proiezioni all’aperto. Ebbene tutto questo cambia la percezione del mondo stesso, non solo dell’opera. E ne amplifica, moltiplica il piacere.

Discorso altrettanto vero per opere più recenti, come l’omaggio che sempre Locarno ha dedicato alla statunitense Kelly Reichardt con titoli come Meek’s cutoff (2010), un western fuori da ogni schema dove alla regista riesce di filmare i paesaggi come invece il cinema al maschile del suo paese non fa più. Un omaggio che conferma a distanza di tempo la Reichardt tra le firme più interessanti del cinema contemporaneo senza distinzioni di genere, ma che resta poco conosciuta in Italia mentre si perde un po’ troppo tempo con Chloé Zhao e il suo cinema formattato e falsamente indipendente celebrato proprio a Venezia nel 2020 con il Leone d’oro al suo Nomadland.

Tutti esempi che dimostrano l’importanza fondamentale del grande schermo e del sistema delle sale per l’esistenza del mezzo d’espressione a cominciare dalle produzioni ad alto budget, che si tratti di quelle Marvel o del Dune di Villeneuve, di Nope di Peele o ancora del Batman di Reeves, produzioni che non ci saranno più senza la visione in sala. E il pubblico, che forse non si rende pienamente conto delle conseguenze del rimanere a casa a vedere film sulle piattaforme, allora rimpiangerà il cinema che fu, quello sul grande schermo.

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Ma se ci siamo dilungati con Locarno è per dire che quanto fin qui scritto è vero anche per Venezia e la sua immancabile sezione Venezia classici nella quale tutti i titoli presentati sono restaurati, e per i suoi film inediti presentati in Fuori concorso, Orizzonti, Giornate degli autori, Settimana della critica. Per Venezia Classici, il premio per il miglior restauro è andato a Koroshi no rakuin (Branded to kill) del giapponese Suzuki Seijun (1967), film di culto più noto come La farfalla sul mirino che non ci si stanca mai di vedere e rivedere. Ma non è stato da meno (ri)scoprire in sala la sensualità coloristica di un film degli studios come Canyon passage di Jacques Tourneur (I conquistatori, 1946), gioiello western che dimostra che il grande regista non era a suo agio solo con degli horror fatti più di atmosfere e suggestioni e ben poco dimostrativi. Oppure recuperare un film tagico del 1991 – quindi sul finire dell’epoca dell’ex Unione Sovietica – come Bratan (Fratello) di Bakhtyar Khudojnazarov, regista scomparso prematuramente nel 2015 ma che proprio Venezia fece scoprire nel 1993 con il Leone d’argento assegnato al magnifico Pari e patta, e che tuttavia forse i lettori ricorderanno più facilmente per il non meno bello Luna papa (1999).

Rispetto a Locarno la parte storica non è “vissuta” a sufficienza da accreditati e pubblico e bisognerebbe trovare un modo per valorizzarla ulteriormente

Bratan, opera creduta persa dallo stesso regista, è la storia commovente e dalla visione ipnotica di due fratelli che si uniscono al macchinista di un treno-merci per raggiungere il padre andato a lavorare lontano e compiono così un viaggio di pura poesia alla scoperta del loro paese. Il film ci dimostra come ancora nei primi anni novanta si producessero dei film leggeri e potentissimi, in un bianco e nero da anni sessanta, di una potenza evocativa rara e fuori da ogni format come sfortunatamente oggi troppo poco accade. E pur senza dimenticare i capolavori di Jean Renoir, del taiwanese Edward Yang, dell’indiano Satyajit Ray, dei giapponesi Yasujirô Ozu e Shôhei Imamura, dell’inglese Peter Greenaway o ancora classici della nostra commedia come Marcia su Roma di Dino Risi o La voglia matta di Luciano Salce, va tuttavia sottolineato che rispetto a un festival come Locarno la parte storica non è “vissuta” a sufficienza da accreditati e pubblico e bisognerebbe trovare un modo per valorizzarla ulteriormente.

Se anche quest’anno nella sezione parallela di Orizzonti – alla quale è stata aggiunta Orizzonti-Extra – ci sono state belle o importanti visioni, tra cui l’iraniano Jang-e jahani sevom (World war III) di Houman Seyyedi premiato come miglior film dalla giuria presieduta da Isabelle Coixet, manca però la ricerca sperimentale in questa sezione, ricerca che irrora poi tutto il resto del cinema, a Venezia troppo confinata in sezioni come Venice immersive, pur innovative. Staremo però a vedere cosa darà nel tempo Biennale college, altra importante innovazione della Mostra, ma dovrebbero essere tutte in maggior dialogo tra loro.

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Considerato tutto questo, appare di vitale importanza che in questa edizione della Mostra la giuria presieduta da Julianne Moore abbia espresso un palmarès che aiuti e celebri le produzioni presentate per il grande schermo. Non ripetendo la vergogna dell’anno scorso dove, fatto salvo per il gioiello di Michelangelo Frammartino, è stato premiato solo il cinema per le piattaforme. Proprio quando importanti distributori del cinema d’autore come Lucky Red portavano nelle sale titoli eccelsi che uscivano in sala in contemporanea o poco dopo – titoli come Il collezionista di carte del maestro Paul Schrader, A Chiara di Jonas Carpignano o il già citato Il buco di Frammartino. Stesso destino di molte opere di alto livello tra cui l’italiano Qui rido io di Mario Martone.

Qual era stato il senso di un palmarès del genere tanto più sapendo che il circuito delle sale era stato duramente colpito dalla pandemia? Quale messaggio si voleva mandare, oltre che al pubblico, ad autori, produttori e distributori? Forse che sono più importanti le piattaforme dopo le major hollywoodiane che i distributori come quello citato? E cosa ci vengono a fare allora a una manifestazione che, non dimentichiamolo, si chiama Mostra d’arte cinematografica? E quale il senso della manifestazione stessa che mediante premiazioni del genere sembra uno strano luogo dove si presentano in anteprima sul grande schermo, e in pompa magna, delle produzioni fondamentalmente destinate al piccolo schermo?

Tutte queste domande, gravi e inquietanti, a un anno di distanza restano. Ma certamente è un grande sollievo vedere che quest’anno Netflix e le piattaforme sono rimaste completamente a bocca asciutta, anche se per l’anno venturo è fortemente auspicabile non solo il mantenimento di questa linea, ma anche un emanciparsi da questa overdose di filmoni enfatici e, soprattutto, da un palmarès che potremmo definire angloamericanofilo. Il che non significa che non debba esserci nulla proveniente da quell’area.

Pur tenendo conto che la Mostra in questo modo ha cercato di rilanciarsi sul piano mediatico (e ci è riuscita anche grazie alla maggior copertura della Rai, al contratto con i francesi di Canal+ e all’indubbia maggior attenzione dei grandi quotidiani) questo premiare sistematicamente e massicciamente il mondo anglosassone quasi sempre fino al Leone d’oro, creando in maniera permanente nel pubblico italiano la confusione con la cerimonia degli Oscar e alimentando in tal modo in esso una pigrizia endemica rispetto a quello degli altri paesi europei – come abbiamo denunciato più volte negli anni passati – è un serpente che si morde la coda.

Tanto più che nel 2019, prima dell’uragano della pandemia, c’erano stati importanti segnali come un ottimo andamento degli incassi nelle sale, il notevole successo di pubblico di un film innovativo e molto apprezzato dalla critica internazionale come il Martin Eden di Pietro Marcello, l’importante aumento di pubblico nelle sale che proiettavano i film in lingua originale e sottotitolati, titoli di grande richiamo compresi. E non sarebbe adeguato e degno della storia della nostra Mostra d’arte cinematografica, storicamente così incentrata sulle cinematografie “altre”. Tanto più se si considera il rinnovato slancio che sembra prendere da quest’anno la Festa del cinema di Roma con l’arrivo di Gian Luca Farinelli, già direttore del festival del Cinema ritrovato e della Cineteca di Bologna e ora presidente della fondazione Cinema per Roma, insieme a Paola Malanga neodirettrice artistica. E vedremo anche cosa accadrà proprio dalle parti del Torino film festival, che da quest’anno torna a essere diretto da un critico popolare e capace come Steve Della Casa.

E, vorremmo aggiungere, non lo sarebbe infine nemmeno in relazione alla storia personale di Alberto Barbera, grande critico e autore di saggi che hanno formato generazioni di critici e studiosi, selezionatore e poi direttore di una manifestazione importante come il Torino film festival – che si era guadagnato prestigio anche all’estero proprio grazie alla sua lunga direzione. Una persona davvero affabile alla quale pure i giornalisti stranieri, e in particolare francesi, riconoscono, oltre al garbo, una facilità d’accesso particolarmente apprezzata se si considera l’irraggiungibilità di Thierry Frémaux, direttore artistico del festival di Cannes.

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