Un’opera di poesia e insieme d’interrogazione alta, visivamente potente e che probabilmente non somiglia a niente di quanto visto finora nella storia del cinema. È Fairytale. Una fiaba, il nuovo, brevissimo ma denso film del maestro russo Alexander Sokurov che dopo la presentazione in Concorso al festival di Locarno e poi al Torino Film Festival è ora nelle sale italiane. Ci arriva grazie al rigore di Academy Two, alla quale dobbiamo l’aver portato in pochi mesi titoli come Memoria di Apichatpong Weerasethakul, Un anno, una notte di Isaki Lacuesta, e Gli orsi non esistono di Jafar Panahi.
È il film delle feste ma anche il film dell’anno, un complimento non da poco visto che nel 2022 il cinema, soprattutto quello d’autore, è stato ricco di titoli di alto livello, anche se gli spettatori sono ancora un po’ pigri rispetto ad altri paesi, come la Francia. Questo mentre in diverse città le sale hanno fatto e stanno facendo uno sforzo importante di rinnovamento. Ma ecco un film davvero da grande schermo.
Si apre infatti con una visione, un magma, una sorta di brodo primordiale: un accavallarsi, se non un accalcarsi, di nuvole o nebbia, quasi come le dune nel deserto del Sahara, il cui biancore è stemperato da un rossore le cui sfumature sono quelle dei grandi affreschi con i tramonti o le albe, ma soprattutto pare quello proprio al mondo primordiale. O all’Apocalisse con la A maiuscola.
Dunque, come abbiamo scritto da Locarno, qualcosa che richiama la grande arte fin dall’inizio. Come in un limbo dalle infinite sfumature di grigio ma dagli ampi squarci di bianco, come in un mondo eternamente sospeso tra il bello e il brutto, tra il nulla e il tutto, o ancora come in una sorta di purgatorio, qui deambulano Adolf Hitler, Benito Mussolini, Iosif Stalin e Winston Churchill, con brevi apparizioni di Napoleone Bonaparte e di un Cristo mesto, molto sofferente, che il padre celeste sembra tenere tirannicamente in eterna attesa, quasi come nascosto in cantina.
Intorno a loro, immagini potenti, evocative, che rievocano a tratti un Gustave Doré, ma soprattutto le grandiose rappresentazioni carcerarie di un Giovanni Battista Piranesi. Un grande e magnifico carcere, forse infinito, in attesa di smistamento di personaggi grandi – o che tali si pretendono – e ingombranti. Tanto più che vi sono anche molti Stalin, Mussolini eccetera, corrispondenti alle varie epoche dei rispettivi personaggi. E intanto parlano e ancora parlano tra loro e ai molti doppi, o “fratelli”, come si autodefiniscono. Vi è molta ironia, umorismo, in questo film del settantunenne ma sempreverde Sokurov.
“Ci serve un grande paradiso, un paradiso infinito”, dice uno degli Hitler. Piuttosto pare un narcisismo infinito, che spesso va a braccetto con una follia o una crudeltà infinita. Al pari della loro logorrea compiaciuta, del loro infantilismo, in eterna estasi di sé.
Tuttavia, nessuno urla qui, ma si borbotta, si parla, si straparla o al massimo si declama (Mussolini), quasi il contraltare della grandiosità delle (ri)elaborazioni pittoriche (e viceversa). Questa babele di lingue che si sovrappongono fino ad annullarsi tra loro, è un piccolo mondo giunto alla fine. Così, mediante il tono sommesso del parlato, in modo altrettanto sommesso s’impone gradualmente anche la radiografia di questi frammenti di ego, poiché costoro furono tutti degli egomaniaci all’ennesima potenza.
Fairytale è un’opera sulla condizione umana, sull’insensatezza dell’esistenza e dell’agire dell’essere umano
Per rendere tutto questo credibile il regista ha lavorato unicamente sulle immagini di repertorio, senza cioè l’uso del cosiddetto deep fake – come sottolineato in apertura del film – cioè di quel procedimento di intelligenza artificiale che consente di creare tra le altre cose immagini false di persone realmente esistenti. Con grande finezza, Sokurov ha creato un altro mondo, un’altra dimensione, un “suo” mondo. Anche grazie alla fatica per la sincronizzazione labiale dei tanti doppiatori, se così si può dire, tra cui va salutato il lavoro straordinario del direttore d’orchestra Fabio Mastrangelo per Mussolini. E poi per le tante musiche, in maggioranza “fantasie dai temi di compositori europei, russi e sovietici del diciannovesimo e del ventesimo secolo provenienti dall’archivio personale di Aleksandr Sokurov”, come ci informano le note di regia.
Anche gli effetti speciali, visivi e sonori, in qualche modo devono restare nella sfera umana, quest’ultima questione fondante del cineasta russo. Già nel 1978 con La voce solitaria dell’uomo, film censurato per quasi dieci anni, Sokurov si interroga sulla condizione umana, raccontando la guerra vista dal prisma di due giovani che ricercano l’amore quanto la dimensione morale. E in fondo anche Fairytale è un’opera sulla condizione umana, sull’insensatezza dell’esistenza e dell’agire dell’uomo, dove il piccolo essere umano, quello martoriato dalle guerre, da massacri insensati, è non soltanto la vittima, ma anche il complice grandiosamente ingannato per aver dato retta all’Ego con la E maiuscola, alle “grandi visioni” – il virgolettato è d’obbligo – di questi leader. Per giunta nella maggior parte dei casi sono personalità che hanno spinto gli esseri umani qualunque, cioè noi tutti, a esprimere il peggio che è latente in ciascuno, anziché il meglio. La loro patologia è anche un po’ la nostra. Ma l’odio nei confronti di queste personalità che viene espresso dai soldati morti, resi qui parlanti, è senza equivoci di sorta.
In qualche modo il creatore di tutte le cose in Fairytale non è l’unico giudice: sottotraccia pare esserlo l’umanità intera, complice dei misfatti ma al contempo sofferente e truffata. Il genere umano è in parte schizofrenico come invece lo sono del tutto questi monumenti della storia spezzettati in tanti frammenti del proprio sé, in gran parte espressione del male più che del bene, o che comunque contengono una parte di male significativa insieme al bene (Churchill, del quale Sokurov sembra criticare in particolare la sua epoca colonialista con una modalità un po’ satirica).
Questa fiaba, che fiaba non è ma incanta quanto una fiaba, sembra anche un po’ la sintesi dei vari rami in cui si è esplicata la vasta filmografia del regista. Una summa. Quello del monologo interiore, intimo, sulla condizione umana, come il capolavoro Madre e figlio (1997), su una madre morente e sull’insensibilità della magnifica natura al dolore degli esseri umani, come sottolineano i rimandi alla pittura romantica di Caspar Friedrich. Quello della ricerca dell’umano nell’orrore della guerra, dal già citato La voce solitaria dell’uomo ad Alexandra (2007). E poi la trilogia sul potere, Moloch (1999), su Hitler, Toro (2001), su Lenin, e Il sole (2005), sull’imperatore giapponese Hirohito, dove già si profila questa rappresentazione delle grandi figure della storia come personalità risibili. Fino ai grandi film-museo come L’Arca russa (2002), sull’Ermitage di San Pietroburgo, e Francofonia (2015), sul Louvre durante l’occupazione nazista.
Grandi visioni dell’arte e tetre visioni della politica: quelle della storia dell’arte e quelle della storia dell’umanità per Sokurov non sembrano combaciare, al contrario delle ramificazioni del suo cinema. Senza dimenticare, sorta di appendice, il Faust (2011) da Goethe, dove l’intera umanità pare forse destinata al limbo, lasciando il meglio di sé soltanto nell’arte. Ma Sokurov ama l’umanità, nonostante tutto, come testimoniano anche la sua semplicità, il suo calore, la sua attenzione ai giovani, la sua preoccupazione per la guerra come quando, sempre nelle note di regia, scrive di “un tempo immerso in tragedie, nel crollo della civiltà. Intere città sono andate in rovina, le foreste ridotte in cenere, milioni di persone che abitavano nelle zone rurali con il loro bagaglio di usi e tradizioni popolari locali, sono stati spazzati via”.
Film di fusione dal magma, dalla lava dell’arte e della tragica storia umana, questo film sulle visioni è anche un film visionario.
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