Il nuovo film di Martin Scorsese scava nella storia oscura dell’America
Ci sono opere che parlano molto bene del presente parlando del passato. Come il nuovo film di Martin Scorsese, Killers of the flower moon, con Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, diretti emblematicamente per la prima volta insieme dal regista di Gangs of New York. Tratto dal libro di David Grann – Gli assassini della terra rossa (Corbaccio 2017), davvero da leggere – racconta l’incredibile vicenda dei nativi osage dell’Oklahoma, che dopo la scoperta nel 1894 di ricchi giacimenti nelle loro terre diventarono “la popolazione al mondo con la maggior ricchezza pro capite”, ma furono poi “assassinati a centinaia in circostanze misteriose, molti di loro avvelenati, affinché le loro concessioni terriere (comprese le quote dei diritti petroliferi)” potessero passare ad affaristi senza scrupoli, smascherati in seguito da un’inchiesta dell’Fbi.
Parlare del passato (rimosso) anche per parlare del presente. Per farlo al meglio, il film, ambientato sì nel passato, ma in un passato in cui comincia pienamente l’era moderna, usa un prologo in un tempo più o meno arcaico, dal sapore un po’ atemporale. Un rito, un canto, una nascita. In questo prologo i dialoghi principali esprimono e condensano la paura che nelle nuove generazioni – e in quelle future – non vi sia memoria delle tradizioni. Una memoria che, rispetto alle rivendicazioni dei nativi di oggi, equivale in modo consistente a un’identità culturale, spesso da intendersi come spirituale.
Il problema dell’identità culturale è centrale nel film, al pari della ricostruzione dei crimini davvero spietati, a tratti selvaggi, commessi nei confronti della comunità degli osage per rubargli a poco a poco tutta la loro ricchezza. Oltretutto fingendosi spesso loro grandi amici, imparando la loro lingua, sposandosi con loro.
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Ricostruendo questa cupa, ma nonostante tutto appassionante vicenda, Scorsese ci dà la piena misura di quanto fu davvero terrificante. E infatti la formula coniata da David Grann, poi ripresa dalla produzione del film, è proprio “Regno del terrore”, con un suo regnante, una corte e dei soldati. Grann, se si leggono le note e l’ampia appendice del libro, “ha esaminato una documentazione impressionante, a cominciare da migliaia di documenti dell’Fbi”, molti dei quali a lungo censurati dal governo federale. Ma anche altri documenti, provenienti dagli archivi statali, “testimonianze segrete al gran giurì, atti processuali, dichiarazioni degli informatori, diari dei detective, documenti per la libertà condizionale e la grazia, atti del consiglio federale degli osage, racconti orali, rapporti sul campo dell’ufficio per gli affari indiani, verbali del congresso, memorandum e telegrammi del dipartimento di giustizia”. Infine, ha anche usato “documenti privati forniti dai discendenti, tra cui i parenti delle vittime”, interviste fatte ai familiari, testi di varie università e lavori di alcuni storici autorevoli e autori osage.
È bene precisare tutto questo perché nel film è fondamentale la ricostruzione storico-antropologica. E perché rimanda ai contenuti veicolati, intesi nel loro senso più ampio: alla stretta lettura degli eventi e della psicologia dei personaggi raccontati, così come alla storia e alla società statunitense, alla reale natura del suo capitalismo e infine alla fusione, rilettura e messa a nudo delle varie mitologie del cinema americano. Non a caso Scorsese, contento di dirigere il suo primo western – lui che li ha tanto amati – lo ha definito “un western noir”, ma potremmo anche definirlo western-gangstermovie-noir. L’incrocio dei generi, che rende l’opera per certi aspetti indefinibile, ha un suo senso, facilmente intuibile per lo spettatore. Incrocio di generi ma anche di epoche.
In questa vicenda siamo infatti a cavallo proprio tra le epoche: negli anni venti è praticamente tramontata quella ottocentesca della conquista del west ed è cominciata la modernità del novecento, dove i cattivi narrati nelle opere di finzione saranno soprattutto quei gangster poi portati al cinema anche da Scorsese. Eppure, anche in questo microuniverso ritroviamo in qualche modo le terribili stragi senza scrupoli e le disinvolte e sistematiche violazioni dei trattati attraverso la manipolazione, che hanno segnato la conquista prepotente del west. Le prove si trovano anche nei saggi più recenti sui nativi d’America, tra cui bisogna ricordare gli indispensabili Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani, 1700-1910 (Einaudi 2019) di Aram Mattioli – storico svizzero specializzato nell’olocausto –, e Ce qui est arrivé à Wounded Knee (Flammarion 2021), una nuova capillare indagine sul celebre e terribile massacro, condotta dallo storico e archeologo francese Laurent Olivier. Ma vanno citati anche i tanti libri di George E. Hyde, decano degli storici sulla storia dei nativi, in particolare dei sioux.
Uno dei mezzi criminali evidenziati da Mattioli in Mondi perduti è appunto la violazione dei trattati da parte del governo federale, oltre che delle autorità statali, dietro un’apparente solennità ingannevole e retorica, grazie alla quale estorcevano questi accordi, convocando delegazioni dei vari popoli nativi in luoghi come Forth Worth: i nativi, oltre che troppo deboli di fronte alla sterminata massa di bianchi, erano sprovveduti di fronte al pragmatismo spregiudicato, cinico e manipolatore dei coloni puritani. Mattioli cita una dichiarazione disperata e straziante di un nativo, che sembra quasi un urlo nella solitudine: ha accolto i bianchi come amici e fratelli, e vede il suo popolo sterminato dal vaiolo. I nativi delle grandi pianure ne furono decimati in una misura che va oltre ogni immaginazione. Accidentalmente, venendo a contatto con mercanti che avevano una forma leggera della malattia; ma anche volontariamente, attraverso le coperte appartenute ai malati di vaiolo e donategli dall’esercito o da emissari governativi.
Mattioli è tanto duro quanto netto: non si trova alcuna pianificazione di uno sterminio per poter parlare di genocidio. Ma mette in fila episodi grandi e piccoli, tutti rivelatori di una medesima mentalità.
Il regno del terrore costruito in modo attento, lucido e freddo dal “dispotico mandriano di Fairfax” William K. Hale (Robert De Niro), fu quindi fondato sulla manipolazione: quella della cultura bianca, o quantomeno di una certa cultura bianca. Professando in pubblico e in privato la fede in dio, reiterata fino alla fine da Hale, al punto da assumere l’aspetto di una patologia.
La manipolazione coinvolge per prima i nativi, ma anche il nipote Ernest Burkhart (DiCaprio, qui il rovescio del personaggio interpretato in Titanic), un misto di dolcezza nascosta e mollezza vigliacca, perfetta per assorbire in modo silenzioso la manipolazione dello zio. Ma tocca pure l’opinione pubblica, condizionata quasi fino all’abbrutimento – pur di vivere in una realtà apparentemente rassicurante – da chi possiede i soldi, dal capitale: non solo Hale, ma anche i magnati del petrolio che partecipano alla grande riunione familiare nella parte finale del film.
Nel sudiciume emerge, vera gemma di purezza del tutto priva di retorica, il personaggio di Mollie, la nativa che Ernest ha sposato con amore, ricambiato. Tuttavia, sarà la sua vigliaccheria di piccolo uomo bianco, succube di un tiranno mostruoso, di un re Mida alla rovescia, pianificatore dello sterminio di una famiglia, che porterà via alla sua compagna la felicità, la salute, le sorelle, il cognato, il cugino e perfino la madre. Lily Gladstone, nativa appartenente al popolo piedi neri del Montana, con la sua interpretazione di Mollie, a cui conferisce un portamento da principessa, domina la scena, ed è una rivelazione.