Chi ha viaggiato negli Stati Uniti sa che ci sono luoghi in cui molte delle narrazioni che compongono la storia del paese si accatastano letteralmente una sull’altra, creando un effetto straniante ma anche rivelando alcune dinamiche profonde che possono aiutare a capire tanti aspetti della società e della politica di oggi. Forse da questo punto di vista nessun posto è esemplare come Rapid City, nello stato del South Dakota.
Rapid City è una cittadina di 70mila abitanti che si è autoproclamata “città più patriottica d’America”. In un articolo pubblicato qualche anno fa sul New Yorker, Brooke Jarvis raccontava che “gli angoli delle strade del centro sono popolati dalle statue in bronzo – quasi a grandezza naturale – di tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti. A un angolo di strada Andrew Jackson aggrotta le sopracciglia e incrocia le braccia, a un altro Teddy Roosevelt impugna una piccola spada”.
Ma la parte più interessante comincia quando si esce dalla città e ci si addentra nelle Black hills, una catena montuosa che verso ovest sconfina nel Wyoming, dove i simboli storici si inseguono freneticamente, come tante voci che urlano l’una sopra l’altra cercando di far prevalere la propria versione della storia nazionale. “L’espansione verso ovest e le storie dei coloni si uniscono in un’allegra e confusa fantasia: i turisti possono visitare una miniera d’oro, entrare in una replica dell’Independence hall di Filadelfia, dove nel 1776 fu discussa e ratificata la dichiarazione d’indipendenza (‘Spara con un moschetto! Esci da qui!’), o fermarsi al National presidential wax museum, che vende una canottiera su cui sono stampati Abraham Lincoln, il presidente che ha abolito la schiavitù, e lo slogan ‘Abolish sleevery’ (in inglese sleeve vuol dire ‘manica’, ma suona simile a slavery, cioè ‘schiavitù’). In una città che porta il nome di George Armstrong Custer, un ufficiale dell’esercito noto per aver usato donne e bambini nativi come scudi umani, i negozi turistici vendono una maglietta che raffigura alcuni grandi leader nativi – Capo Giuseppe, Toro Seduto, Geronimo e Nuvola Rossa – e li definisce ‘padri fondatori originali’, mentre un’altra dice, con caratteri formati da stelle, ‘Benvenuti in America, ora parlate inglese’”.
Opere dell’opportunismo
Proseguendo ancora si arriva a quello che è forse il più grande simbolo del patriottismo americano, il monte Rushmore, su cui sono scolpite le teste di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln, a rappresentare rispettivamente la nascita, la crescita, lo sviluppo e la stabilità degli Stati Uniti. Ogni testa misura all’incirca 18 metri di altezza. Più avanti, andando verso ovest, s’incontra un’opera ancora più strabiliante, o meglio la piccola parte di un’opera che, se mai dovesse essere completata, sarebbe il più grande monumento del mondo. È il Crazy Horse memorial, in sostanza un enorme costone di roccia su cui da decenni si sta scolpendo la figura di Cavallo Pazzo, grande leader dei nativi oglala lakota. Le due opere sono distanti appena quattordici chilometri l’una dall’altra. Si fronteggiano come due grandi cattedrali che omaggiano due visioni opposte dello stesso culto.
Le vicende che hanno portato alla nascita dei due monumenti, e in particolare dei due uomini che li hanno concepiti, racchiudono non tanto la storia degli Stati Uniti ma più che altro il modo in cui la storia è tramandata, modificata, contestata, a volte occultata, e alla fine raccontata.
Inaugurato nell’ottobre del 1941 dopo quattordici anni di lavori, il monte Rushmore era stato concepito dallo scultore Gutzon Borglum come una celebrazione della grandezza della nazione, senza precedenti nella storia dell’umanità. “Questo colosso è la nostra impronta”, disse una volta. In realtà, ha scritto lo Smithsonian Magazine, “Borglum aveva alle spalle una storia squallida, e il suo monumento è anche una testimonianza dell’ego e della brutta ambizione che sono alla base di alcuni dei più famosi trionfi statunitensi”.
Nel 1914 Borglum, un modesto scultore del Connecticut, fu contattato da Helen Plane, presidente dell’associazione Figlie unite della confederazione, che gli chiese di costruire un “santuario del sud”, cioè un monumento che onorasse le persone che avevano difeso la schiavitù durante la guerra civile. Borglum presentò un bozzetto per una grande scultura raffigurante Robert E. Lee e Stonewall Jackson, generali dell’esercito sudista. Helen Plane era entusiasta e fece partire i lavori. L’opera, un bassorilievo sulla Stone mountain, una grande roccia di quarzo vicino ad Atlanta, in Georgia, fu inaugurata nel 1972.
Borglum era convinto che per attirare i turisti servissero volti noti e riconoscibili, così decise di scolpire nel granito i quattro presidenti
Figlio di mormoni poligami dell’Idaho, Borglum non aveva legami con la confederazione ma era un sostenitore del suprematismo bianco. “Nelle sue lettere”, racconta lo Smithsonian, “si preoccupava di ‘un’orda di bastardi’ che avrebbe invaso la purezza ‘nordica’ dell’ovest”. Una volta disse: “Non mi fiderei di un indiano nove volte su dieci. Non mi fiderei di un bianco una volta su dicei”. Ma era soprattutto un opportunista. Si avvicinò al Ku Klux Klan, che era uscito indebolito dalla guerra civile ma era rinato all’inizio del novecento: l’organizzazione razzista e suprematista finanziò il progetto e organizzò una fiaccolata in cima alla Stone mountain nel 1915.
Nel 1924 Borglum fu contattato da Doane Robinson, uno storico del South Dakota che aveva saputo di Stone mountain e stava pensando di realizzare un’opera simile sulle Black hills, nella speranza che potesse attirare turisti verso lo stato. Secondo Robinson l’opera doveva rappresentare “non solo la grandezza selvaggia della geografia locale ma anche il trionfo della civiltà occidentale su quella geografia, attraverso la sua rappresentazione antropomorfa”.
L’idea originale di Robinson prevedeva di scolpire sulla roggia personaggi importanti della storia dell’ovest, come Lewis e Clark, i primi uomini capaci di raggiungere la costa del Pacifico via terra, i nativi Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo e Sacagawea, e il generale John Fremont. Borglum invece era convinto che per attirare i turisti servissero volti più noti e riconoscibili, così decise di scolpire nel granito i quattro presidenti, a simboleggiare “una creazione nata, pianificata e formata nella mente e dalle mani degli americani per gli americani”.
A colpi di monumenti
I lakota e altre tribù indigene locali contestarono il progetto fin da subito. Per prima cosa lo vedevano come una profanazione delle terre sacre, e poi non potevano sopportare che sulle loro montagne comparissero i volti giganti di uomini che avevano attuato politiche di sterminio sui nativi. Theodore Roosevelt, che fu presidente dal 1901 al 1909, era noto per le sue posizioni estreme. Una volta disse: “Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che sia vero per nove su dieci di loro, e preferirei non indagare troppo a fondo sul decimo”.
Così il monte Rushmore diventò il simbolo delle ingiustizie inflitte dal governo degli Stati Uniti ai popoli nativi. E da lì nacque l’idea di rispondere al monumento realizzato dagli uomini bianchi con un’altra opera, possibilmente ancora più grande, per mostrare al mondo che anche i popoli nativi avevano i loro grandi eroi. La scelta cadde su Cavallo Pazzo (Crazy Horse), il guerriero oglala lakota che nel 1876 sbaragliò il generale George Armstrong Custer e il settimo cavalleggeri nella battaglia del Little Bighorn. Una scultura pensata per oscurarne un’altra.
Ma anche il monumento a Crazy Horse fu segnato fin dall’inizio da contraddizioni e polemiche. La storia cominciò nel 1939, quando un anziano lakota chiamato Orso in Piedi scrisse a Korczak Ziolkowski, uno scultore che aveva lavorato per un breve periodo sul monte Rushmore, chiedendogli di immaginare un’opera che celebrasse la storia e la cultura dei nativi.
Ziolkowski era figlio di due polacchi emigrati negli Stati Uniti all’inizio del novecento. Quando era molto piccolo entrambi i genitori morirono in un incidente in barca, e lui fu cresciuto da una famiglia irlandese di Boston. Il padre adottivo era un pugile. Imparò da solo a scolpire, e nel 1939, dopo aver vinto un premio artistico all’Esposizione universale di New York, fu notato da Orso in Piedi. Nel 1947 Ziolkowski si trasferì nel South Dakota e cominciò a comprare terreni. Un anno dopo presentò il progetto della sua opera. “Voglio riparare al torto che hanno fatto a queste persone”, disse.
Ziolkowski ha concepito un’opera che è il prodotto della sua megalomania
L’articolo del New Yorker racconta che “Ziolkowski partì con pochi soldi, un vecchio compressore difettoso e una scala di legno sgangherata di 741 pioli per arrivare al versante della montagna”. La moglie lo lasciò perché pensava che fosse troppo preso da quell’impresa e troppo poco dalla famiglia. Nel 1950 lo scultore si risposò con Ruth Ross, una volontaria del sito che aveva diciotto anni in meno di lui. La cerimonia si tenne il giorno del ringraziamento, in modo che Ziolkowski non dovesse prendere un giorno di ferie. In un’intervista Ruth raccontò che il marito l’aveva avvertita prima delle nozze: la montagna sarebbe stata al primo posto, lei al secondo e i figli al terzo. “Potete capire perché abbiamo avuto dieci figli”, disse una volta Ziolkowski. “I ragazzi potevano lavorare sulla montagna e le ragazze occuparsi dei visitatori”.
Ziolkowski ha concepito un’opera che è il prodotto della sua megalomania (qui un’intervista che fa capire il personaggio). In teoria dovrebbe raffigurare Cavallo Pazzo a cavallo, con i capelli lunghi al vento e il braccio sinistro teso a indicare verso l’orizzonte. Alla fine dei lavori, il monumento dovrebbe avere dimensioni sbalorditive: se le teste dei presidenti del monte Rushmore fossero impilate l’una sopra l’altra, arriverebbero a meno della metà dell’altezza di Cavallo Pazzo; le orecchie del cavallo dovrebbero essere grandi come autobus. La megalomania portò lo scultore a sottovalutare i costi e i tempi necessari per completare l’opera. Nel 1951 stimò che sarebbero serviti trent’anni, ma quando lui morì, nel 1982, “la scultura era ancora solo una roccia amorfa e sfregiata”, racconta il New Yorker.
Dopo la morte di Ziolkowski la moglie decise di concentrare tutti gli sforzi sulla rifinitura del volto di Cavallo Pazzo, a oggi l’unica parte finita del monumento. Alla cerimonia di inaugurazione, nel 1998, partecipò il presidente Bill Clinton. Il fatto che non sia mai stato ultimato non ha impedito al memoriale di diventare una grande attrazione turistica e una macchina da soldi. “Ogni anno più di un milione di persone visitano il Crazy Horse memorial, un nome quasi sempre seguito, su opuscoli e cartelli, dal simbolo del copyright®. Pagano un biglietto d’ingresso (attualmente trenta dollari per automobile), più un piccolo extra per un breve viaggio in autobus fino alla base della montagna, dove le fotografie vengono meglio, e un extra considerevole (una donazione obbligatoria di centoventicinque dollari) per visitare la cima. Al ristorante mangiano frybread (un tipico piatto nativo) e carne di bufalo, nel negozio di souvenir comprano magliette, pellicce di coniglio, kit per la costruzione di tepee ed elmetti commemorativi”.
Nell’anno fiscale 2018 la Crazy Horse memorial foundation ha incassato 12,5 milioni di dollari dai biglietti d’ingresso e dalle donazioni e ha dichiarato un patrimonio netto di settantasette milioni di dollari. Queste cifre riportate non tengono conto dei guadagni della Korczak’s heritage, inc, un’organizzazione a scopo di lucro che gestisce il negozio di souvenir, il ristorante, lo snack bar e il servizio di autobus che porta alla scultura. Gli opuscoli distribuiti sul sito spiegano che il denaro speso al memoriale va a beneficio delle cause dei nativi americani. In realtà la vita delle comunità native del South Dakota, come quelle del resto del paese, è segnata dalla povertà e dalla mancanza di opportunità. Nella riserva di Pine Ridge, la regione a sudest del memoriale dove nell’ottocento furono trasferiti con la forza le tribù cacciate dalle Black hills, molte famiglie fanno fatica a pagare le bollette – in alcuni casi decine di persone vivono insieme in una roulotte – e fanno affidamento sui sussidi del governo per riuscire a sfamare i figli.
Ma oltre all’aspetto socioeconomico ce n’è uno culturale, che riguarda il senso di un’opera come quella ideata da Ziolkowski. Il fatto che sorga su un luogo che per i nativi è il simbolo di inimmaginabili ingiustizie, va considerato una vittoria per i discendenti delle tribù maltrattate, come se in qualche modo un popolo si fosse riappropriato della propria casa storica? Molti dei nativi di quelle zone pensano di no. C’è chi crede che l’idea fosse sbagliata in partenza, racconta il New Yorker: “Alcuni sostengono che una scultura delle dimensioni di una montagna non rappresenti la vita di Cavallo Pazzo, che era noto per la sua umiltà, considerata una virtù fondamentale nella cultura lakota. Non si vestiva mai in modo elaborato e non si faceva fotografare. Prima di morire chiese alla sua famiglia di essere seppellito in una tomba senza nome”.
C’è anche il problema del luogo: “Le Black hills sono conosciute, in lingua lakota, come He Sapa o Paha Sapa, nomi che a volte vengono tradotti come ‘il cuore di tutto ciò che esiste’. Cavallo Pazzo ha combattuto tutta la vita per proteggerle. Far letteralmente esplodere una montagna su queste terre sacre può essere visto come un insulto enorme a ciò che lui ha rappresentato”. Per questo molte persone pensano che l’opera sia diventata più che altro un monumento a Ziolkowski e alla sua famiglia, che ha guadagnato milioni di dollari sfruttando l’immagine di un leader indigeno.
È una parabola che non sorprende, se si pensa al modo spericolato in cui viene sfruttata da più di un secolo l’immagine di Cavallo Pazzo. Nel 2001 la Hornell Brewing, un’azienda produttrice di birra, fu costretta a cambiare nome e logo del modello Crazy Horse, lanciato nove anni prima, dopo che i discendenti di Cavallo Pazzo avevano fatto causa (il leader nativo disprezzava l’alcol perché pensava che avesse un pessimo effetto sui nativi). L’azienda si scusò pubblicamente e come risarcimento consegnò ai nativi coperte, tabacco, cavalli e trecce di sweetgrass.
Nel 2016, durante una causa nata da una disputa tra uno strip club e una società di consulenza, entrambi chiamati Crazy Horse, un giudice scrisse: “Individui e società hanno usato il marchio ‘Crazy Horse’ per promuovere equipaggiamenti per motociclette, whisky, fucili e, naturalmente, locali di strip e danza esotica. Almeno dagli anni settanta, i locali notturni Crazy Horse hanno aperto ovunque, da Anchorage, in Alaska, a Pompano Beach, in Florida”.
In fondo è così che la cultura degli indigeni è stata assorbita da quella statunitense nel corso dei secoli. Fatti, persone ed eventi centrali nella storia dei nativi sono stati privati del loro valore originario e hanno finito per alimentare il mito della conquista dell’ovest e la nostalgia per quel vecchio mondo.
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