Il ragazzo e l’airone di Miyazaki è un volo artistico inatteso
Il ragazzo e l’airone, il nuovo lungometraggio di Hayao Miyazaki – dal 1 gennaio nelle sale italiane – è un volo artistico inatteso quanto l’annuncio del suo ritorno, esattamente dieci anni dopo quello del suo ritiro con Si alza il vento (2013). Nel senso che il suo cinema, dietro all’apparente autocitazionismo, si fa al contrario sempre più alto e complesso. Adulto, per dirlo in una sola parola. E dove la fiaba non solo diventa una parabola morale a più strati, ma si muta in illuminazione surrealista sull’ambiguità profonda del reale, prossima all’ultima parte della filmografia di David Lynch.
Un viaggio statico eppure immenso, in un sol posto eppure tra infiniti luoghi, mondi, universi, temporalità parallele e simultanee. E soprattutto persone morte e viventi, a loro volta parallele e simultanee. O se si preferisce, doppi e tripli, oppure ancora, una sola cosa che si sdoppia in più parti. E in questo carosello delle reversibilità, per vivere – ma forse è più esatto dire per tentare di recuperare il piacere per la vita – bisogna provare a morire.
Trionfo dell’instabilità delle cose
Per spiegare meglio quanto detto, la prima cosa forse da precisare è che il maestro giapponese dell’animazione va oltre i riferimenti al mondo rovesciato, sottosopra di Alice nel paese delle meraviglie, già visti in altri titoli della sua filmografia, peraltro dei capolavori (Il mio vicino Totoro e La città incantata). Va oltre, ecco la definizione più pertinente. Nel senso che si fa sempre più infinito, cosmico e astrale, ma partendo dal particolare e muovendosi su linee sottilissime, tra le intercapedini nascoste delle varie dimensioni.
È evidente che il film è una sorta di proseguimento di Si alza il vento: si passa dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda (negli ultimi due lungometraggi di Miyazaki le guerre moderne vengono infatti a sostituire quelle arcaico-mitologiche), e in entrambi i film siamo lontani dall’eroismo – che il regista tendenzialmente riserva alle protagoniste femminili – poiché Jiro, l’ingegnere aeronautico protagonista di Si alza il vento, era miope a tal punto da non vedere la morte di cui erano portatrici le sue creazioni, ma soltanto la poesia delle forme. Ne Il ragazzo e l’airone siamo al trionfo della reversibilità o instabilità delle cose, una costante del cinema di Miyazaki.
Mentre sullo sfondo infuria il conflitto bellico, un ragazzino sulla soglia dell’adolescenza, Mahito, è sospinto in maniera brutale verso l’età adulta, realtà cruda che disintegra e disgrega sogni e bellezza: la morte della madre e il matrimonio subitaneo del padre con la sorella di lei, quasi identica alla madre. Per aiutarlo a trovare un qualche sollievo psicologico, il padre porta Mahito in campagna, in un maniero situato in prossimità della sua nuova fabbrica di aeronautica militare (anche il padre del cineasta ne dirigeva una).
Pian piano viene attratto dalla vicina e misteriosissima torre cilindrica abbandonata, che deve la sua origine a un prozio di cui non si parla volentieri, che è a metà tra il sapiente e il mago, visivamente simile a un druido appartenente a un’era arcaica. A Mahito è assolutamente vietato varcare la soglia della torre, ma, come avviene spesso, il divieto suscita ineluttabilmente un’attrazione con forza crescente, quasi come un magnete. Bella e potente variazione della fatidica porta da non aprire, ben presente nella tradizione delle nostre fiabe.
Ma ineluttabilmente Mahito va oltre la soglia. E l’ingresso nella torre è l’inizio di un viaggio (dall’apparenza) immobile ma in realtà dai molteplici livelli, per giunta instabili e fragili. Ma soprattutto è un viaggio tumultuoso: non è certo cosa facile essere sulla soglia dell’innocenza (l’infanzia), se si va all’indietro, e al contempo sulla soglia della colpa e della manipolazione (l’adolescenza, sorta di anticamera alla vita adulta), se si va in avanti.
Mahito, sfruttando una zuffa tra compagni, fa credere a tutti di essere stato brutalmente ferito alla testa da loro quando è stato invece lui stesso ad autoinfliggersi una piccola mutilazione del cuoio capelluto: è l’inizio di un itinerario di iniziazione – l’ennesimo del cinema di Miyazaki – che consiste nell’attraversare il tunnel dell’ambiguità dell’animo e dell’agire umano nel momento in cui questo comincia a manifestarsi, o meglio a prendere coscienza di sé.
Quel sé che, a seconda delle scelte fatte, biforcherà su destini opposti: basta nulla, come un fremito di ala di uccello, per discendere negli abissi infernali oppure ascendere all’aurora paradisiaca. Per esempio un uccello come l’airone, che è qui fin da subito il diavoletto tentatore, è il fantasma che appare e scompare venendo a battere sulla porta o sulla finestra di casa. E in quanto tale anch’esso è bugiardo, manipolatore.
Quando Mahito giunge al cospetto del signore della torre, questi desidera ardentemente che lui prenda il suo posto di mago-demiurgo dalla labile collocazione morale, tra il demoniaco e l’angelico, e dietro al quale, in questo film parzialmente autobiografico al pari di Si alza il vento, si può intravedere anche lo stesso Miyazaki. Allo spettatore lasciamo il piacere di scoprire quest’interrogazione sul libero arbitrio, sulla moralità al contempo metaforica e onirica.
Un viaggio nello spirito e nella mente
Agli appassionati che potrebbero forse desiderare nuova idee-sorpresa, come alla visione di Laputa, Principessa Mononoke o La città incantata, vogliamo dire che a un maestro del cinema dell’età di Hayao Miyazaki può essere concesso di creare echi tematici e visivi con le sue opere precedenti, come gli uccelli cartacei di La città incantata, la malattia della madre delle protagoniste di Il mio vicino Totoro, il piccolo tunnel, ancora in Totoro, che diviene un grande tunnel dove si perdono i genitori di Chihiro in La città incantata.
Ma questo compendio della sua filmografia, in realtà, per taluni aspetti è il tessuto per creare del nuovo: nel suo viaggio dello spirito e della mente Miyazaki raggiunge David Lynch, riuscendo come lui a fare dell’inquietudine e dell’oscurità, bellezza e dolcezza; dei percorsi qualcosa d’inconoscibile e chiuso (il finale qui non mette fine); l’antro astrale del signore della torre è prossimo alla Loggia nera di Twin Peaks, stanza misteriosa e minuscola che tutto collega e controlla e di confine tra la vita e la morte. E soprattutto i personaggi sono forse doppi, (ir)reversibili e segretamente schizofrenici come in Strade perdute e Mulholland drive: madre e sorella sono forse la stessa persona, così come pure la dolce Himi dai poteri magici e forse addirittura lo stesso Mahito, come sembrano suggerire i nomi della madre morta e del figlio (Mahito-Nihilo).
Gli stati della mente e della psiche si (con)fondono in maniera magistrale con il viaggio al confine tra vita e morte; e inferno, limbo o ade (il non-luogo del dopo morte nel mito greco) trovano una forma meravigliosa e paradisiaca. Aggregando e disgregando le forme dei corpi e della materia, lo spazio e il tempo.
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