Arriva in sala un film breve ma intenso, semplice e profondo, anche quando gioca con umorismo su stereotipi e luoghi comuni nei confronti di altri paesi e popoli. È Viaggio in Giappone di Élise Girard, presentato con successo a Venezia alle Giornate degli autori. Protagonista Isabelle Huppert nei panni di una scrittrice che parte per un tour giapponese, invitata dal suo editore. Frasi spesso secche o brevi, che rendono ideale la visione in lingua originale. Silenzi che si alternano a momenti di grande sorpresa. Perché il soprannaturale in Giappone è assolutamente naturale.
Il lettore avrà forse notato la curiosa coincidenza di film giapponesi o europei ambientati in Giappone usciti ultimamente nelle sale italiane: Il male non esiste di Ryūsuke Hamaguchi, Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki e Perfect days di Wim Wenders.
In Hamaguchi, e ancora di più in Wenders, tutto si rivela nei dettagli, in piccoli scorci di natura o ambienti architettonici. Entrambe sono opere dalla forte impronta sensoriale, che in Miyazaki si abbina a una fantasia straripante, visionaria. Girard è al suo terzo lungometraggio di fiction, ma al suo primo di una qualche lunghezza (poco più di novanta minuti) e produttivamente importante, come indica la presenza di Huppert nella parte della protagonista. Anche nel suo caso ci sono piccoli scorci, a volte addirittura anfratti, di natura selvatica o (ben) ordinata dagli esseri umani, oppure di architetture, come quelle dei templi, dei cimiteri e dei vari aeroporti e hotel che caratterizzano il lungo tour giapponese della protagonista, in cui certo primeggia la sosta a Kyoto, città santa del Giappone.
Fin da subito il film gioca con umorismo su stereotipi e luoghi comuni occidentali, che tuttavia contengono parti di verità. E lo fa con un’ironia un po’ teatrale, in cui silenzi, battute secche e una gestualità a tratti un po’ goffa – in una qualche relazione con la pantomima – rimandano alla lontana alla comicità di un Jacques Tati. Del resto la lontananza che si fa gradualmente vicinanza è proprio il tema del film. Gli antipodi si ibrideranno felicemente, affrontando però grandi dolori. Quelli di due esseri umani che rappresentano, in una dimensione intima, noi, gli occidentali, e loro, i giapponesi. In un senso più ampio, è l’incontro tra noi e l’altro.
Sidonie, questo il nome della scrittrice, è andata in Giappone per presentare la riedizione giapponese del suo libro d’esordio L’ombre portée. L’ombra del titolo che si porta dietro è multipla: ha perso i suoi genitori e il fratello in un incidente d’auto. Scopriamo poi che l’adorato marito Antoine è morto nello stesso modo, in un altro incidente, mentre lei non si è fatta niente. Un sovraccarico di lutti e dolore che è sciolto con semplicità e limpidezza, senza pesantezze e ridondanze melodrammatiche, ma con un’asciuttezza zen.
Strano editore Kenzo Mizoguchi, il quale a sua volta sembra portare davvero bene il cognome del regista di I racconti della luna pallida d’agosto, Kenji Mizoguchi: il cineasta aveva umili origini, in gioventù ebbe una vita familiare molto travagliata. La moglie era affetta da una malattia mentale, e lui morì a causa della leucemia.
Ben presto, il Mizoguchi editore si svela affetto dal mal de vivre, quanto e forse più di un artista. Alla domanda di Sidonie se ha figli, risponde che non ne ha, proprio come lei. “Non ne voglio. Trovo il mondo assurdo”. Con la moglie non comunica, non si parlano da anni. Lei c’è, ma è un fantasma in carne e ossa. Lui, il marito di Sidonie, è un fantasma della mente, e forse non solo.
La scrittrice e l’editore sono due specchi opposti, ma anche due specchi che gradualmente si confrontano. “Le sue parole sono come un’eco segreta alla mia storia”, dice Mizoguchi. I lutti personali della francese sono il rovescio di quelli di Mizoguchi, espressione però di quelli di un intero paese: la sua famiglia è morta a Hiroshima e solo il padre è sopravvissuto al bombardamento atomico di quel giorno, perché era andato a trovare un amico in un’altra città. Non solo: quando c’è stato il terremoto a Kobe, che ha ucciso il fratello e la moglie, Mizoguchi aveva appena lasciato la città. Quasi una predestinazione circolare. È “come una storia che ricomincia in continuazione”.
L’aspetto algido e cartesiano della francese Sidonie è perfetto per questo confronto, ispido e delicato allo stesso tempo, con il pudore cerimonioso dei giapponesi: “In Giappone teniamo i sentimenti per noi”, ammette Mizoguchi, con un imbarazzo che ispira simpatia e quasi tenerezza. Che bella differenza, che bella distanza. Secondo Peter Kolosimo tutti gli esseri umani erano degli extraterrestri e i giapponesi ne costituivano un esempio di prim’ordine. In effetti possono sembrare così per certi aspetti, in senso positivo, ma volendo anche negativo. E, al contrario, possiamo sembrarlo anche noi a loro, in senso sia positivo sia negativo. Ma è certo unico il connubio che esprime questo paese tra una modernità estrema e una spiritualità arcaica che tutto pervade, quella su cui è incentrato il film. Penetra nel visitatore, soprattutto se non distratto. “Tutto è strano, anche la consistenza del cibo è diversa. Mi sento modificata”, dice a un certo punto la terrestre Sidonie, sempre più vicina al suo editore extraterrestre (vedendo le cose in ottica occidentale).
Tutto è strano e infatti succedono strani fenomeni. Forse i fantasmi esistono, per esempio. Entrando nell’ascensore dell’hotel le sembra di vedere il marito. Se è qui, spiega subito l’editore, è perché “avete ancora delle cose da dirvi”. C’è qualcosa in sospeso. In Giappone i fantasmi “vivono tutt’intorno”, vivono con noi, spiega ancora Mizoguchi: “Il mondo visibile e quello invisibile coesistono” e la verità è che “i fantasmi ci aiutano a vivere”. “Non sono mai partito perché probabilmente è difficile lasciarti in questo dolore senza fine”, dirà il fantasma a Sidonie.
Ma nasce – imprevisto – un trauma gentile, delicato: l’amore. Un amore tra due esseri umani di culture lontanissime, extraterrestri l’uno per l’altra. Attraverso quest’incontro tra antipodi, il trauma assume un senso rovesciato: la predestinazione alla circolarità – simboleggiata dalla luna, nella cultura zen sinonimo anche di illuminazione – s’interrompe. “Il paese in cui viviamo non esiste”, è la frase d’addio scritta a quattro mani con il fantasma, in una sequenza da antologia. Sidonie tornerà a scrivere, il lutto senza fine è finalmente elaborato. “Prima o poi dobbiamo liberare i morti e lasciarli morire”, se vogliamo “ri-vivere”. E poi “ri-conoscersi”, come dice Mizoguchi, dichiarandole il suo amore.
Ibridando il cinema intimista francese con quello di fantasmi giapponesi, e più in generale con il cinema contemplativo orientale, questo film di spiriti – metafisici o della psiche – pienamente espressione dello scintoismo, restituisce serenità allo spirito, suggerendo che la quiete (l’illuminazione) risiede nell’inquietudine. E viceversa.
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