Cominciamo da Emilia Pérez di Jacques Audiard. È forse il suo miglior film di sempre, di sicuro uno dei suoi migliori, perfettamente scritto dallo stesso Audiard e recitato, dal gran ritmo e con personaggi costruiti con il talento del grande romanziere. Un narcotrafficante messicano rapisce un’avvocata stanca di difendere orridi e corrotti personaggi pubblici per farli sfuggire alla giustizia e le chiede di scegliere il miglior luogo e chirurgo che gli consenta di cambiare sesso e diventare, all’insaputa dell’adorata moglie, la donna che avrebbe sempre voluto essere. Sarà presto l’alba di un nuovo essere umano e insieme di un potenziale nuovo gender umano, così come di una rinascita delle relazioni umane, perché anche l’avvocata rinascerà a nuova vita.
Insieme finiscono per costruire un movimento che porterà al ritrovamento di tante fosse comuni in cui si trovano i resti di una moltitudine di persone scomparse perché scomode per i narcotrafficanti e i loro complici istituzionali. Come se acquisire il suo vero io, la sua vera identità, l’avesse non solo calmato radicalmente, ma lo avesse fatto diventare materno verso l’umanità intera. Audiard offre un’interpretazione destabilizzante su cosa si possa nascondere nella psiche di una persona dietro all’ossessione del machismo.
D’altro canto, il narcotrafficante, diventato la Emilia Pérez del titolo, anche da donna resta fuori dagli schemi. Preferisce le donne agli uomini, oltretutto nel ruolo dominante. Ma l’alba rischierà di trasformarsi presto in un tramonto.
Anche se forse un po’ meno appariscente e accattivante, il capolavoro assoluto di questi giorni al festival è Caught by the tides di Jia Zhangke. Il grande regista cinese, tra le figure più importanti del cinema contemporaneo, riesce nell’exploit di costruire un nuovo grande affresco del suo paese, come già in precedenza, ma questa volta dal raggio ampio, perché parte dal 2001 e arriva a oggi. E lo fa utilizzando in gran parte il girato non usato nei film precedenti, con l’eccezione della parte finale, filmata durante la pandemia di covid-19.
Come in altre sue opere recenti racconta le persone prigioniere sia nel tempo sia nello spazio, malgrado l’immensità della Cina. La Cina come pianeta-mondo a sé stante, pur essendo allo stesso tempo un caleidoscopio e un concentrato di tutte le contraddizioni del mondo globalizzato di oggi.
In questo senso, i film di Jia sono anche fantascientifici in quanto indagano lo spazio-tempo, e non per caso fin da Still life, Leone d’oro a Venezia nel 2006, ci sono riferimenti espliciti agli ufo, oppure edifici che si mutano in astronavi al calar della notte. Epifanie poetiche con cui trasfigura questo divario tra un mondo ipertecnologico, asettico e levigato, e un mondo povero, arcaico, autentico, che va scomparendo, ibridandoli nel tessuto estetico dei suoi film.
In Still life – che mescola documentario, neorealismo e fiction – filma praticamente in presa diretta le acque che progressivamente sommergono i centri abitati, e con loro i modi di vivere che si erano sedimentati nel tempo, per via della costruzione di una gigantesca diga nelle Tre gole. In questo senso la temporalità nel suo cinema è sempre legata alla questione della memoria che si va dissolvendo, soprattutto quella popolare.
Caught by the tides è un ritorno sui luoghi cari al regista, attraverso materiali già esistenti. Al posto degli ufo c’è un robottino quasi da manga, ma siamo di nuovo a Datong, città mineraria nel nord della Cina, in cui il regista è cresciuto, e che era già presente nel suo terzo lungometraggio Unknown pleasure (2002) e nel penultimo, I figli del fiume giallo (2018).
In questa nuova opera una giovane donna, Qiaoqiao (Zhao Tao, musa ispiratrice e moglie del regista), si innamora di un ragazzo, Bin (Li Zhubin). Lui però scompare all’improvviso per trovare faticosamente lavoro e fortuna altrove, ma potremmo dire che scompare nel tempo e nello spazio, per via dell’immenso buco nero dei processi liberisti che fagocitano tutto. Non siamo poi lontani dalla trama di I figli del fiume giallo, e in questa sua bella variazione minimalista troviamo in qualche modo rielaborato il concetto del cinema di Yasujirō Ozu, che rappresentava la crisi, il crollo progressivo dei valori del vecchio Giappone con scostamenti piccoli, a volte minimi, ma che, immessi nei punti giusti, provocano grandi differenze.
Nel film di Jia Zhangke i due personaggi si ritrovano, anziani, schiacciati dalla fatica della vita. Ma se lui si sorregge con il bastone, lei può ancora unirsi a un gruppo che corre per strada. Anche se la meta sembra offuscata, l’obiettivo svanito.
Come in tutti i film di Jia, a cominciare da The world (2004), l’alienazione causata dai processi economici liberisti colpisce le classi più povere della società. C’è sempre una rappresentazione quasi magniloquente delle grandi trasformazioni con cui trasfigura il kitsch, mutandolo in incanto poetico, anche se sempre piuttosto fugace e forse illusorio, un’estetica che nella rappresentazione del regista sembra essere il nuovo fondamento del potere cinese che sottotraccia, pervasivo, domina la mente delle persone ben più della propaganda di superficie, per quanto possa essere asfissiante.
In questo senso l’icona abbandonata di Mao in un vecchio edificio dice molto su quanto sia facile nella Cina di oggi dimenticare colui che fu chiamato Il grande timoniere e come sia invece difficile criticare i nuovi processi socioeconomici. Ma a Jia Zhangke interessano le persone più comuni dietro al grande fondale dei ciclopici mutamenti socioeconomici indotti dal potere centrale: se li registra come fascinosi e talvolta anche maestosi è proprio perché in parte lo sono.
Forse anche lui ne è in parte attratto, ma si interroga in modo implacabile su questo fascino insieme a noi, mettendo tuttavia in primo piano le laboriose, anonime formiche cinesi. In teoria non sono nulla rispetto a questi cambiamenti colossali, eppure la rappresentazione della loro dolorosa solitudine è sempre profondamente partecipata. Grande ricapitolazione della filmografia di Jia Zhangke, Caught by the tides si rivela così una sorta di variante del metacinema – di cui abbiamo già parlato a proposito di Megalopolis di Coppola – ma applicato alla sua cinematografia, qualcosa di finora mai visto, ma privo di narcisismo gratuito.
Per un Coppola che se ne va, uno Schrader che arriva. Paul Schrader è un altro dei maestri della New Hollywood degli anni settanta. Se Megalopolis è dominato dalla dismisura, l’esplosione e la ridondanza visiva, Oh, Canada – tratto da un romanzo di Russell Banks – è l’esatto opposto per la sua sobrietà, la durata di appena novantacinque minuti, il doloroso ma umanissimo senso di una fine che si avvicina.
Anche in questo caso c’è un ritorno sui luoghi del regista, metaforicamente reso dalla presenza di un Richard Gere anziano, stanco e sulla sedia a rotelle. In filigrana si può intravedere lo stesso Schrader, ricoverato di recente per covid-19. L’uomo che era stato l’aitante protagonista di American gigolò, gran successo di Schrader, è ora al crepuscolo, triste. Grande documentarista della controcultura anni sessanta, si appresta a tirar fuori delle verità scomode su di sé dopo averlo fatto sugli altri.
Ai flashback con lui giovane – interpretato da Jacob Elordi – se ne sovrappongono altri in cui Gere commenta in diretta la sua memoria, alcuni in bianco e nero, altri a colori. Alcuni più veri, altri più ambigui. Non si distingue più il vero dal falso e l’angoscia crescente della moglie ne dà la misura in quest’altra interrogazione metacinematografica sulla realtà, la vita, la morte. E il Canada tanto agognato da giovane, meta di chi scappava dalla leva militare per evitare la guerra in Vietnam, si muta in surrogato del paradiso, tra sogno, ricordo e morte.
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