Tra i tanti film di supereroi non c’è nessun caso di un villain che abbia goduto così regolarmente di interpretazioni di livello e con attori di fama come Joker, il nemico per antonomasia di Batman. Joker: folie à deux, in sala, chiude uno straordinario dittico a lui dedicato, un privilegio che ha del paradossale se si pensa alla sua essenza di clown psicopatico e disperato. In verità è una grande opera sulla solitudine dell’essere umano, soprattutto quello più povero e abbandonato da tutti, e lo è ancora di più se messa accanto al primo film: perché qui definitivamente l’essere umano non sa più cosa sia. Senza più identità, svuotato di se stesso, va anche oltre la rabbia esplosiva, anarcoide, degenerativa, e ricerca la sua umanità perduta. Joker: folie à deux, malgrado il titolo, è un urlo disperato che chiede amore, ma che resta immancabilmente solitario.
Questa seconda parte è ancora diretta da Todd Phillips, che è anche tra i produttori e l’ha sceneggiata con Scott Silver. È stata presentata in concorso a Venezia come la prima, che però aveva vinto il Leone d’oro, quest’anno andato a La stanza accanto, il notevolissimo film di Pedro Almodóvar. Folie à deux è un po’ meno spettacolare del primo, ma ancora più profondo. Perché, come ho scritto da Venezia, questo Joker è “all’opposto del film di Almodovar, la solitudine è la più totale: dietro le apparenze la stanza accanto è vuota, e fin dall’inizio”.
Rinchiuso nel manicomio criminale di Arkham, Joker appare fin dall’inizio, nel biancore livido e nel grigiore dell’ospedale, magro e smunto, come un essere umano rinchiuso in un lager. Qualche momento fugacemente colorato suggerisce l’anelito al colore, inteso come vita, ma anche di ritorno al mondo psicopatico di proiezione delle proprie fantasie che gli aveva permesso di convivere con gli orrori vissuti nell’infanzia e nell’adolescenza: a inizio film, mentre i carcerieri lo accompagnano nell’attraversamento del cortile, i loro rispettivi ombrelli, filmati dall’alto, assumono colori diversi e accesi, come fossimo in Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy: ma poi la camera torna a terra e gli ombrelli si fanno neri. Si torna alla realtà, plumbea. Del resto, il breve prologo animato è la quintessenza di un mondo dissolto, di uno show ormai ridotto solo a proiezione della mente, che in tutto il film vuole partire ma che non parte mai.
La decostruzione delle mitologie dei supereroi, cominciata dal fumetto e poi continuata nel cinema, è qui osmotica alla decostruzione della società dello spettacolo, quella analizzata da Guy Debord, ormai ridotta a luogo (psicotico) della mente. La critica anticapitalista e, per così dire, proletaria, iniziata dalla trilogia che Christopher Nolan ha dedicato a Batman, si salda qui alla critica della società fondata sullo spettacolo e alle sue ultime propaggini: mondo dei social, degli influencer, una società che fonde lo spettacolo, ormai simulacro di se stesso, con la follia: “Sono solo io o tutto sta diventando più folle là fuori?”, dice Joker stesso a un certo punto. Perché Joker, sempre meno Joker e sempre più Arthur Fleck, si sente ormai estraneo a tutto questo, a quei ragazzi e ragazze truccati da Joker che vogliono, o vorrebbero, sovvertire tutto, ma che confondono la rivolta con il gioco, e viceversa: lui ormai cerca solo di ritrovare l’essere umano perduto nel suo sé, avendo acquisito una nuova, molto dolorosa consapevolezza: Philips ci dice, in modo molto inatteso visto il personaggio, che ogni essere umano può essere recuperato.
Il tramite è un ragazza vista nel manicomio, la cui apparizione gli ha di nuovo colorato il mondo, stavolta con la bellezza, con l’amore. Ma forse è solo un’illusione, come ogni miraggio di fiaba, qui in senso rovesciato, e come in ogni spettacolo, che prende la forma di un film cantato, a tratti, ma non di un musical. Lee Quinzel (Lady Gaga), convince Joker/Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) a tornare quello di prima, a provarci, una volta che sarà uscito da lì: lui, travolto da lei, le dà fiducia e torna a essere Joker nell’aula processuale e non più solo nelle proiezioni (musicali) della fantasia. Licenzia la sua bravissima avvocata, che vuole sinceramente aiutarlo, aprendogli gli occhi e allo stesso tempo evitandogli la condanna a morte, facendo emergere la sua follia schizofrenica. E assume lui stesso la propria difesa, con l’assenso del giudice, che gli concede anche di vestire i panni di Joker. Ma tutto si blocca: come nella nostra realtà non si riesce a tornare alla normalità prepandemia, per non parlare a quella precedente agli attacchi terroristici, dell’11 settembre e dei successivi. Crisi dopo crisi, la civiltà occidentale, pare essersi avvitata su se stessa: è una civiltà ingolfata in modo permanente.
E questo crea allontanamento tra Arthur e Lee, seppur involontario. Il punto è che lo spettacolo non riesce proprio a procedere. Joker, che sembrava aver ritrovato la sua verve autoironica fatta di sberleffo, torna a essere Arthur Fleck in piena esibizione processuale: la realtà affiora sempre, il vero dolore pure. E tutto finisce: “That’s all folks”, come dice lui stesso, essendo ormai consapevole di essere l’unico essere umano sulla terra.
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Niente più spazio per lo sberleffo dei comici, di qualsiasi genere. La reazione di Lee Quinzel è coerente con questo. Lei del resto non è la proletaria che da piccola ha subìto tante violenze, come lui: non è la sua metà, non è il suo specchio. È una ragazza ricca e viziata, pronta a fare tutto pur di soddisfare il suo ego e il suo desiderio di essere al centro dell’attenzione. Non ci può essere interclassismo. Tutto è a senso unico, anzi un cul-de-sac. Lo stesso in cui ci troviamo noi.
Il film rappresenta anche la chiusura del cerchio su questo personaggio molto interessante, un cerchio che forse si chiude sia per il cinema sia per il fumetto. Come immaginare ancora nuove esibizioni di Joker? Quale senso avrebbero? È la chiusura di una parabola. Nel cinema, quella del Joker interpretato da Jack Nicholson nel primo Batman (1989) di Tim Burton. Un Joker giocoso e circense, ancora spensierato: potremmo dire che corrisponde all’infanzia del personaggio: il suo nome ne è il paradigma. Ma bambino fino a un certo punto: insieme alla dimensione circense c’è quella gotica, tipica del fumetto creato da Bob Kane nel 1939, in cui il livello circense, come è stato notato, sconfina nel demoniaco: la scena del combattimento notturno nel campanile, con i suoi rimandi espressionisti, ne è paradigmatica. Ma la sovversione impunita, blasfema quasi, è molto forte e lo spinge a imbrattare le opere d’arte al museo, a fare la sua pop art, molto anarcodadaista. Il ghigno-sorriso permanente di Nicholson è ancora l’incarnazione di un’icona. Divertente e divertita, anche se inquietante.
Quello di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008) – secondo capitolo della trilogia di Christopher Nolan e ultima memorabile interpretazione del giovane attore prima della morte prematura – è invece un Joker molto più crudo e realistico, violento, quasi un terrorista, già molto poco maschera: potremmo definirlo come il Joker dell’età matura.
Il personaggio di Ledger è totalmente incapace di empatia, è un sociopatico, un disadattato ispirato a figure reali del punk come Sid Vicious dei Sex Pistols o anche a icone come Iggy Pop. Il suo trucco sbavato, il suo essere sempre sudato, dà anche l’idea di un personaggio che si sta macerando nella sua maschera.
E poi c’è il Joker che prende vita propria nel dittico di Phillips. L’interpretazione di Phoenix nel primo capitolo è parzialmente la prosecuzione di quella messa in scena da Nolan/Ledger, ma ravviva in parte anche quella di Burton/Nicholson. Nel secondo, non è nessuna delle due. È il Joker del crepuscolo, della malinconia. Il Joker della vecchiaia. Tardivamente romantico, ripensa al suo passato, pentito, revisionista. Stanco, se non sfinito.
Nel primo Joker (2019) di Phillips, come ho scritto all’epoca, c’era già “la rappresentazione di un ambiente sociale deterministico che non lascia possibilità di fuga agli esseri umani se la grande ribellione porta i segni, anzi le stimmate, della follia”. Lì c’era la citazione di Tempi moderni di Charlie Chaplin, in senso quasi rovesciato, mentre nel secondo il suo corrispettivo è Spettacolo di varietà (1953), di Vincente Minnelli con Fred Astaire, ancora una volta in senso rovesciato. È lo stesso per i (non)luoghi in cui si aggira: nel primo eravamo in un simulacro di Taxi driver (1976) di Scorsese, nel secondo di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1976) di Miloš Forman. Perché lui è allo stesso tempo l’ultimo uomo sulla terra e l’ultimo punk non di pura estetica. Disadorno come un Cristo prossimo alla crocifissione.
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