Nelle chiese non si celebra messa, nelle moschee sono vietate le preghiere collettive, le sinagoghe sono chiuse: anche la fede è messa a dura prova dalla diffusione del coronavirus, in Italia e nel resto del mondo. Resistono i fondamentalisti, gli ultraortodossi delle varie fedi, che si rifiutano di aderire alle misure di sicurezza, ma si tratta di gruppi sempre più circoscritti. E tuttavia, nonostante gli impedimenti fisici, in uno scenario apocalittico – per una volta reale e non cinematografico – segnato dalla pandemia globale, il bisogno del sacro, di trovare risposte che vadano oltre le curve dei grafici che indicano l’escalation inarrestabile dei contagi e delle morti, riprende quota.

Così l’antico gesto della preghiera torna nell’esperienza collettiva, accompagnato però dalla forza dei social network. Mercoledì 25 marzo il papa ha invitato i credenti a recitare tutti insieme il Padre nostro, con un appello che ha percorso la rete con l’hashtag #prayfortheworld. Bergoglio, nel breve videoappello lanciato dal Vaticano per l’occasione, ha chiesto la protezione di Maria senza tuttavia rinunciare – neanche stavolta – a uscire dai confini stretti del confessionalismo. “Ringrazio tutti i cristiani, tutti gli uomini e le donne di buona volontà che pregano in questo momento, tutti uniti, qualsiasi sia la tradizione religiosa alla quale appartengono”, dice infatti Francesco nel video. Una preghiera per il mondo, appunto, che travalica i confini delle religioni e dei popoli, un messaggio di unità in un momento in cui è facile rinchiudersi nei propri acquartieramenti familiari, regionali o nazionali. Un principio ripetuto in senso ecumenico al momento della preghiera che ha riunito non solo i cattolici “ma tutti i cristiani del mondo”.

Se insomma il santuario di Lourdes ha chiuso i battenti per la prima volta nella sua storia, se al santo sepolcro di Gerusalemme si accede a piccoli gruppi ben distanziati secondo quanto stabilito dai capi delle diverse chiese cristiane, se le cattedrali sono chiuse, non per questo la vita della chiesa si è fermata. Intanto perché la Caritas – e con lei diverse altre organizzazioni e realtà cattoliche – si è mobilitata per portare aiuto al popolo dei più fragili: senza tetto, poveri, anziani soli, migranti; un mondo che rischia di essere abbandonato in queste settimane di svuotamento delle città e di priorità drammatiche per il sistema sanitario dettate dall’epidemia. E non va sottovalutato il fatto che decine di preti e religiosi stanno morendo in questi giorni dal nord al sud del paese (poco meno di settanta fino al 25 marzo). D’altro canto il Vaticano è stato la prima istituzione di peso mondiale che ha provato a dare una lettura politica della pandemia, a indicare una prospettiva futura.

Il ruolo di guida
Fin da subito Oltretevere si è avvertito il rischio che il coronavirus portasse, attraverso la corsa alla chiusura dei confini nazionali e al ripiegamento inevitabile dei governi sulla crisi interna, a una nuova recrudescenza di nazionalismi ed egoismi, radicati questa volta in un’emergenza reale. Per questo il cardinale ghaneano Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, in una nota dedicata al coronavirus, spiegava: “Certo, quest’incidenza del virus, come qualunque situazione di emergenza, evidenzia maggiormente le disuguaglianze gravi che caratterizzano i nostri sistemi socioeconomici”. “Sono disuguaglianze – aggiungeva – di risorse economiche, di fruizione dei servizi sanitari, come di personale qualificato e di ricerca scientifica. Davanti a questo ventaglio di disuguaglianze la famiglia umana è interpellata a sentirsi e vivere realmente come una famiglia interconnessa e interdipendente. L’incidenza del coronavirus ha dato prova di questa rilevanza globale, avendo colpito inizialmente un solo paese per poi diffondersi in ogni parte del globo”.

Anche in Vaticano nel frattempo si contano i primi casi di contagio (l’ultimo è un prelato che lavora alla segreteria di stato e vive nella residenza Santa Marta, dove abita il papa) e allo stesso tempo si cerca di mantener comunque in funzione la macchina amministrativa sia pure a ranghi ridotti. “La Santa Sede ha stabilito che i dicasteri e gli enti ad essa collegati non sospendano la propria attività”, spiegava una comunicazione dello scorso 24 marzo. “Ai responsabili dei dicasteri è affidato il compito di continuare ad assicurare i servizi essenziali alla chiesa universale predisponendo contingenti minimi di personale in ufficio e incentivando per quanto possibile il lavoro da remoto”. Insomma rallentare sì, fermarsi – almeno per ora – no. La preoccupazione della Santa Sede, infatti, è pure che in un momento drammatico come quello che stiamo attraversando, non venga meno la capacità di guida della chiesa universale quale riferimento etico e spirituale capace di parlare a tutti; non a caso il papa ha fatto più volte riferimento alla necessaria unità fra credenti e non credenti in un simile frangente.

Un’emergenza come quella del Covid-19 si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà

Il rischio, secondo la riflessione portata avanti in Vaticano, è che il mondo si dimentichi in fretta dei più deboli e che la pandemia rinnovi spinte xenofobe e autoritarie. In questa prospettiva non passano inosservati casi come quello dell’Ungheria, dove il leader ultranzionalista Viktor Orbán ha già provato a prolungare lo stato d’emergenza – e quindi la sospensione delle garanzie democratiche – proclamato lo scorso 11 marzo (si tenga presente che in Ungheria si contano ufficialmente circa 200 contagiati). Data la portata della crisi e considerate le sue varie implicazioni, il Vaticano ha deciso di lavorare a un documento sulla pandemia dal titolo significativo: Coronavirus e fraternità umana. Il testo sarà curato dalla Pontificia accademia per la vita, guidata da monsignor Vincenzo Paglia, il quale in un intervento ha spiegato il senso dell’iniziativa : “Un’emergenza come quella del Covid-19 si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà. I mezzi tecnici e clinici del contenimento devono essere integrati da una vasta e profonda complicità con il bene comune, evitando la tendenza alla selezione dei loro vantaggi per i privilegiati a scapito dei vulnerabili in base a cittadinanza, reddito, politica, età”. “La scienza – ha osservato ancora l’arcivescovo – non deve cedere al sovranismo o alla pressione politica; è chiamata ad allearsi con la solidarietà e l’umanità. Viviamo in tempi in cui nessun governo, nessuna società, nessun tipo di comunità scientifica, devono considerarsi autoreferenziali”.

Due sono le questioni poste: l’insorgenza di nuovi istinti isolazionisti da una parte e la possibilità che all’interno delle stesse società colpite dal virus vengano fatte pericolose graduatorie sociali rispetto a quanti abbiano diritto alle cure. Un tema sul quale il presidente della Pontificia accademia è entrato ancor più nel dettaglio: “In questi giorni drammatici è delirante pensare che gli anziani – perché di questo si parla – siano selezionati per essere scartati. La dignità non ha età”.

Sulla stessa linea di ragionamento, allargando ulteriormente l’orizzonte, interveniva la Civiltà Cattolica, rivista internazionale dei gesuiti che, attraverso un articolo firmato da Andrea Vicini, docente di teologia morale al Boston College, metteva l’accento su un altro rischio: quello della ricerca del colpevole, della creazione artificiale della categoria dell’untore, del nemico interno. “La logica del capro espiatorio mostra come la sete umana di conoscenza possa venire pervertita, trasformandosi e riducendosi in una falsa attribuzione di colpa” scrive Vinci. “Nella sofferenza causata dall’infezione o dalla malattia che si condivide, la possibilità di una rinnovata solidarietà esistenziale è soppiantata dalla scorciatoia emotiva che individua nell’altro, in chi non è come me – per motivi politici, culturali, religiosi, razziali, etnici e linguistici – il responsabile e il colpevole”. Al contrario “la tragica ironia delle malattie infettive è che chi viene infettato diviene colui che infetta, mostrando la falsità di ogni semplificazione che intenda assegnare la colpa all’altro”.

Dunque su un piano più generale, a livello sia individuale sia sociale, secondo la Civiltà Cattolica, “le malattie infettive rendono evidente la nostra comune vulnerabilità e dovrebbero favorire la presa di coscienza della necessità di una solidarietà condivisa: nella nostra diversità, siamo tutti uguali, con la stessa predisposizione a essere infettati e malati”. Di conseguenza “se vi sono responsabilità (per esempio legate al nostro stile di vita, a come trattiamo gli animali, a come favoriamo il passaggio di infezioni virali da animali a esseri umani), esse vanno individuate per poter intervenire modificando il nostro modo di agire e di vivere”.

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